Prima suonava avversari Adesso il sax di Kareem

Yelverton e la protesta contro la guerra in Vietnam che pagò cara
«Con la pallacanestro dei miei tempi di certo non ci si arricchiva»

Suonava la chitarra, quel ragazzo «che amava i Beatles e i Rolling Stones e veniva dagli Stati Uniti d’America», cantava «viva la libertà» ma lo attendeva una guerra assurda e infinita nel Vietnam, la morte in battaglia e due o tre medaglie sul petto.
Nel leggere ciò che Charlie Yelverton ha detto al collega Massimiliano Castellani, ci si rivede in bianco e nero ad ascoltare Gianni Morandi o Joan Baez, senza sapere che la guizzante ala della Mobilgirgi già allora, invece della chitarra, suonava il sax e la sua protesta contro la guerra l’aveva emarginato dal mondo che contava, quello della Nba, dove aveva debuttato nel 1971.

Scende sempre un velo di tristezza nel ricordare il passato di persone che abbiamo idolatrato ai tempi del liceo, con la luce che allora li investiva e ce li faceva sembrare fantastici, irraggiungibili e perfino immortali, destinati per sempre a “ciuffare” nel canestro a supersonica velocità.
Allora i neri erano soltanto quelli delle squadre di basket e gli africani che arrivavano a Varese a perfezionare gli studi all’aeronautica Macchi, Charlie era un poco “pozzecchiano”, lontano dall’eleganza

quasi british di Morse e dall’aplomb di Meneghin e Ossola, e piaceva moltissimo, vittorie o non vittorie, proprio per quell’allure d’artista che conservava anche nel quotidiano.
Era l’“americano di Coppa”, quello da lanciare in campo quando il gioco si fa duro e serve il genio ribelle, la variabile impazzita capace con il sorriso di trascinare la squadra e divertirsi pure. Quello che dice: «Okay amico, adesso cambia la musica, mettiamo un po’ di swing».

Yelverton ha 66 anni e questo è già faticoso da incassare, ma soprattutto fa male sapere che il numero 15 di Mobilgirgi oggi la sfanga suonando il sax che gli regalò Kareem Abdul-Jabbar nato Alcindor, una delle leggende planetarie del basket, prima di togliergli il saluto per via della protesta sul Vietnam. Ha il pizzetto grigio Charlie, gira per locali a tirar mattino e allena i bambini dalle parti di Verbania, a Miazzina, tra le montagne della val Grande.
«Una pensione non ce l’avrò e con la pallacanestro dei miei tempi non ci si arricchiva», dice nell’intervista colui che vide la “partita della vergogna” quel 7 marzo 1979 al Palazzetto contro il Maccabi di Tel Aviv, e sollevò la Coppa dei Campioni l’anno prima, nell’ultima stagione di fulgore del basket varesino tritatutto.
Il jazz, che lo salvò da una vita disperata nel ghetto di Harlem, continua a proteggerlo e il sax è un altro se stesso, l’unico amico che mai lo tradirà, quando i ricordi sfumeranno e il basket avrà rappresentato soltanto dieci anni di un lavoro come un altro. «Music is magic», bella come il sogno pacifista di Charlie, imprendibile come lui, lanciato a folle velocità sul parquet di Masnago.