Ci siamo lasciati solo sette giorni fa parlando dell’urbanistica, partendo dall’urbs, cioè l’insieme di territorio destinato ad ospitare, far vivere, far nascere, ma soprattutto dare ipotesi di felicità a cittadine e cittadini, istituzioni, associazioni, imprese. Ed oggi ci soffermiamo su ciò che ha caratterizzato e, nonostante alcuni soloni non riescano a vederlo, continua a caratterizzare la città di Busto Arsizio, comunità viva della città baricentrica tra Legnano e Gallarate, da sempre ricordata in Italia, e non solo,
come città del lavoro e dell’impresa. Del lavoro che può generare ricchezza, sviluppo, benessere e socialità, e che ha permesso a Busto Arsizio di superare i limiti connessi alla sua terra. Arida per definizione prima ancora che per nome, destinata all’agricoltura, ma che soffriva la concorrenza e la competizione vicina di altre terre ben più grasse, ben più idonee e ben più facili a generare ricchezza attraverso l’agricoltura. Ecco che Busto Arsizio e i bustocchi sin dall’antichità hanno saputo far sì che questi limiti diventassero opportunità e hanno creato di un’ingegnosa ricerca del benessere per sé, le proprie famiglie e la propria società. Busto Arsizio, elevata da Vittorio Emanuele II al titolo di città anche per il fatto di aver compiuto – prima al Nord – una vera e propria rivoluzione industriale.
Ed ecco perché anche al tempo della crisi, della finanza, della recessione che, ahimè, il susseguirsi di governi illegittimi, non votati dal popolo e più rispondenti ai poteri forti di Bruxelles, ha soltanto saputo peggiorare quando non rendere quasi strutturale, ebbene allora concentriamoci sulla Busto manifatturiera, sulla Busto industriale, sulla Busto che in passato fu la Manchester d’Italia e oggi continua ad essere una città che resiste.