Mi chiamo Pasquale e a Varese ce l’ho fatta

L’editoriale del creativo Diaferia, responsabile insieme a Michelangelo Collitorti del «caso più pop di viralità varesina»

Adesso che l’onda emotiva si è spenta, dopo la festa in piazza di ieri sera, è venuto il momento di parlare del nostro fenomenale Natale. Come molti sanno sono il responsabile, con Michelangelo Collitorti, di quello che pare sia il caso più pop di viralità varesina. Questa canzone di Natale, la nostra canzone, ascoltata e cantata da centinaia di migliaia di persone, è prima di tutto un inno a Varese e alla sua gente. Ed è

nata per saldare un debito con la mia città. Certo, mi chiamo Pasquale e i miei genitori sono meridionali trasferiti qui negli anni del boom. Ma sono nato qui, ho avuto un banco alla scuola pubblica Pascoli, poi alle medie Vidoletti, infine al liceo Cairoli. Ho imparato dai varesini che quando si lavora si lavora, che quando si studia si studia, che quando devi fare il tuo dovere devi concentrarti fino alla fine. Ho imparato che se lo fai bene, la gente ti dà fiducia, spazio, rispetto, amicizia.E quello che ho imparato a Varese, l’ho usato a Milano, poi a Roma, poi a Londra, a Parigi, a New York. E se ho vinto premi, lavorato per le più importanti aziende del mondo, ricevuto attestati di stima come soddisfazioni economiche, beh, lo devo anche al fatto di essere cresciuto in una città che, quando ero adolescente, era più sfidante e internazionale di Milano. Alle medie avevo compagni stranieri i cui genitori erano dirigenti delle tante aziende multinazionali del territorio. Al liceo avevo compagni stranieri i cui genitori erano scienziati del Ccr di Ispra. Ho respirato, assieme al calore del falò della Motta, anche l’intensità delle differenti culture di persone che parlavano altre lingue, e pensavano in modi diversi dal mio, dal nostro. Il paradosso è che, dopo tanti anni, vedo una Varese molto meno internazionale, molto meno propositiva, molto meno unita. Quando abbiamo proposto a Michele Lo Nero, l’editore di questo giornale, una canzone che rilanciasse l’idea che “Noi siete, Voi siamo”, lui ha accettato subito che la gente cantasse per Varese e che si aprissero le porte a tutti quelli che volevano esserci. Qualcuno ha detto che mancava la gente normale, che c’era solo la buona borghesia della città. Si sono dimenticati che nei cento cantanti c’erano alcuni politici e professionisti, ma tanti, tantissimi sconosciuti, soprattutto giovani, che lavorano tosto come Fatif il kebabbaro, praticano sport che formano come il rugby, fanno musica e fanno cantare anche gli altri. Molti di questi domani andranno nel mondo portando con sé il marchio di varesinità: gente che sa fare, che sa proporre cose nuove, che sa imporsi col cuore anche fuori dai confini delle castellanze della città. Ma con questa canzone, diventata così popolare, non volevo solo saldare un debito con la città che ha formato il ragazzino con un nome meridionalissimo e una testardaggine molto bosina. Volevo ringraziare mia mamma di avermi fatto nascere all’ospedale di Circolo. La donna che ha voluto che sulla mia carta d’identità ci fosse scritto “Nato a Varese” proprio oggi compie 80 anni. Grazie, Mamma. Se sono un varesino orgoglioso, lo devo sicuramente a te, che hai sempre voluto che studiassi, mi impegnassi e non perdessi l’occasione di vivere e crescere in una delle città più belle, semplici e complicate del mondo. Senza perdere le mie radici, ma imparando ad essere uno di qui. Fuor di retorica, vorrei che lo ricordassero anche tutti i ragazzi che oggi hanno 16 anni, di tutte le etnie e tutte le religioni: a Varese si può diventare grandi. Bisogna solo impegnarsi, dare il massimo, rispettare gli altri e farsi rispettare per le proprie capacità. Se riesci a fare tutto questo, se riesci ad essere parte di questa comunità, potrai cantare anche tu “Noi siete, Voi siamo”. E state sicuri che sarete, e saremo, in tanti a cantarla.