«La gente viene a teatro attratta da un nome e va via soddisfatta dall’intera compagnia». Lo dice senza modestia ma con convinzione Pierfrancesco Favino, protagonista di “Servo per due” di Richard Bean, tratto dal goldoniano “Il servitore di due padroni”, in scena al teatro Manzoni di Milano fino al 31 dicembre con tanto di brindisi di capodanno (biglietti 15/35 euro, S. Silvestro 80/109 euro, info 02.7636901). Un grande successo in Inghilterra, dove Favino ha visto la commedia per la prima volta e una sfida vinta nel nostro Paese con i suoi colleghi del gruppo Danny Rose, sin dal debutto la scorsa stagione a Caserta.
L’ho sempre amato e quando andavo a vedere i miei amici, l’odore degli spazi o semplicemente stare in platea mi metteva nostalgia. Di teatro è difficile vivere, significa potersi permettere una pausa e prima devi aver seminato. Sono stati dieci anni ricchi di esperienze, ma il palcoscenico è fondamentale per capire a che punto sei arrivato, quanto ti sei formato. Mi sto divertendo tanto, anche se la tournée è faticosa, ma mi è servita per perdere i venti chili messi su per girare il film “Senza nessuna pietà”.
Ne faceva parte la mia compagna e io avevo coprodotto una loro messa in scena. All’inizio mi sono tenuto un po’ lontano per non oscurare e per capire le prospettive, poi ho deciso di entrare a far parte del gruppo in modo attivo. In questa commedia recito, curo lo regia con Paolo Sassanelli, inoltre ho contribuito all’adattamento e traduzione. Siamo in 40, ma il cast di questo spettacolo è formato da 21 attori che si alternano nei 13 ruoli durante tutta la tournée, eccezion fatta per me e per altri quattro componenti sempre presenti. Non dovrei essere io a dirlo, ma siamo tutti grandi professionisti, ciascuno nel suo ruolo, pagati allo stesso modo.
Sono Pippo, un Arlecchino di goldoniana memoria, costretto a servire due padroni, anche se abbiamo mantenuto l’aspetto infantile, gioioso e ingenuo del personaggio, a discapito della scaltrezza.
Una delle cose che apprezzo del mondo anglosassone è la capacità di reinventare i classici, portandoli più vicini ai nostri tempi. Da noi è visto come una bestemmia, un tradimento, eppure credo sia necessario per riportare pubblico a teatro. Bean ha ambientato la commedia nella Brighton anni Sessanta noi abbiamo optato per gli anni Trenta gli anni dell’avanspettacolo, del varietà, una delle ultime forme in cui si è tradotta la commedia dell’arte. Inoltre quegli anni, lasciando da parte la situazione sociale e politica, sono stati una grande fucina del made in Italy per quanto riguarda architettura, costume, musica.
Dall’orchestra “Musica da Ripostiglio”, formata da quattro elementi, che hanno curato anche gli arrangiamenti delle più note canzoni dell’epoca.
Sto prendendo il brutto gusto per la regia teatrale (scherza), inoltre sono stato impegnato nel film “Suburra”, di Stefano Sollima, regista di “Gomorra” e in “Marco Polo” grossa produzione americana, in onda dal 12 dicembre su Netflix. Ora sto vagliando un po’ di progetti per questa primavera.