Ci frega la voglia, o forse la necessità, di etichettare ogni cosa dandole il nome che più ci fa comodo, che più ci serve. I tempi cambiano, e insieme cambia il modo di leggere e raccontare quel che succede. Oggi un folle dissociato che decide di prendere una pistola e far fuori un po’ di gente presa a caso ci fa subito pensare alla mano spietata dell’Isis, tiene in scacco una metropoli, mette in piedi dirette televisive nelle quali il più
delle volte non si dice nulla, genera dibattiti e soprattutto ci butta dentro ancora un po’ di paura. Come se ne avessimo bisogno. La stessa cosa era accaduta nel 1999 alla Columbine High School, nel 2012 alla Sandy Hook Elementary School, a Utoya nel 2011 (il 22 luglio, proprio come a Monaco…). In quei casi le etichette furono diverse, diversi i dibattiti: la facilità con cui negli Stati Uniti ci si può armare, la solitudine in cui macerano gli adolescenti…
In quest’estate di troppi morti, tanta angoscia e domande senza risposta, l’Isis si è preso pure questo: l’esclusiva sulla paura. E se c’è una vittoria, per questi maledetti, è proprio questa: l’esclusiva sulla paura, che ci fa pensare a loro ogni volta che capita qualcosa di brutto. Una vittoria passeggera, una vittoria isolata: una vittoria che si trasforma in sconfitta ogni volta che, incassato il cazzotto, riusciamo a rialzarci. Ci rialziamo con quel surreale minuto di silenzio sulla Promenade a Nizza, il giorno dopo. Ci rialziamo con gli abbracci tra i ragazzi di Bruxelles, a spegnere il rumore delle bombe. Ci rialziamo. Pronti a tirare qualche cazzotto anche noi, adesso: e a confronto i loro sembreranno carezze.