Perché negli uomini grandi e grossi spesso alberga un cuore smisurato? Deve essere questione di proporzioni. Gianfranco “Dado” Lombardi conferma la regola: centonovantaquattro centimetri di un uomo trasversale agli ultimi 50 anni di storia del basket italiano ed una disponibilità nell’aprire l’album dei ricordi, analizzando con sapienza anche il presente, che commuove l’interlocutore. Da Dado si va a scuola di emozioni e si impara a combattere il grigiore quotidiano, perché non c’è argomento che venga trattato senza attingere a piene mani in una passione che colora l’esistenza.
Alla vigilia di Varese-Bologna raggiungiamo un simbolo della pallacanestro felsinea in grado, però, di tratteggiare con cognizione di causa anche i colori biancorossi: non fosse altro per quella conoscenza diretta risalente alla stagione 2000/2001, per i suoi trascorsi da eterno avversario e per quel rapporto speciale che lo lega a Gianmarco Pozzecco.
Certo che lo è. Varese, Bologna, Milano e Cantù: fuori da questa cerchia non è rimasto più nulla. Se non consideriamo i derby, la partita di domenica è una delle poche ancora importanti a livello nazionale. Non va poi tralasciata l’attualità: si fronteggiano due squadre molto interessanti.
Una macchina che è costretta ad andare a 130 all’ora invece che a 90 a causa dell’assenza di Kangur, mancanza che la rende un’incompiuta. Senza l’ala estone, il Poz non può mettere in pratica la pallacanestro che avrebbe in mente: ha meno soluzioni, meno stabilità, meno concretezza. Intendiamoci: non stiamo parlando di un campione assoluto, ma di una pedina fondamentale perché multidimensionale e difficilissimo da marcare.
Squadra che fa della difesa il suo marchio di fabbrica. Valli ha instillato nei giocatori un senso tattico ben preciso e pretende che si controlli ogni pallone in attacco: è un avversario molto difficile per Varese.
Non esprimo mai un giudizio sui giovani. Nella mia carriera mi sono sbilanciato solo per due atleti in verde età: un certo Gianmarco Pozzecco ed un certo Gianluca Basile, due fuoriclasse fin dal principio. Ho paura che Fontecchio sia un giocatore estemporaneo che fa bene due partite e poi torna nell’anonimato. Si può dare una valutazione sensata solo dopo un intero campionato.
Non so: io ci ho messo un po’ a cambiare. Ho costretto me stesso a passare del tempo in una stanza buia per capire che non tutti quelli che dovevo allenare potevano essere alla mia altezza. Non è facile accettare gli errori degli altri una volta indossate giacca e cravatta. Pozzecco ci sta riuscendo a metà: deve ancora fare dei passi in avanti, deve tornare nella stanza buia. Il dialogo, capire i propri uomini, sono aspetti fondamentali.
Ragazzi, ma da quando un coach di Varese non finiva sulle prime pagine dei giornali? Io di lui mi prenderei tutto e non sono d’accordo con Dan Peterson quando dice che la società subisce negativamente certi episodi che lo hanno visto protagonista: Pozzecco è protagonismo, è vivere le partite in un certo modo… è Pozzecco. Le racconto una cosa…
Sono andato a trovarlo recentemente, prima di Cremona. L’ho visto un po’ giù, non era il solito. Ci siamo messi a parlare, ho cercato di aiutarlo partendo da alcune esperienze vissute durante la mia carriera e poi di farlo ridere. Abbiamo ricordato di quando lui mi tirava la giacca perché voleva rientrare in campo esattamente 32 secondi dopo essere stato sostituito. «Sono già pronto coach!» mi diceva. Questo è Gianmarco: ero sicuro che dopo il nostro colloquio Varese si sarebbe ripresa, cosa che è successa a Brindisi. E vedrete che anche domenica andrà bene: la partita contro Bologna può essere una porta verso la serenità.
Di gran lunga. Geno era un giocatore bravo fino alle spalle. Gli mancava totalmente un particolare: la testa. Ed infatti è finito miseramente. Il Creatore è stato un po’ ingiusto con lui: avrebbe dovuto dargli meno tecnica ed un po’ più di cervello.
Partiamo dal presupposto che la grande forza di Gianmarco sta nel voler vincere sempre. Visto che io non amo perdere, diciamo che ci si incontrava su un terreno comune. Ci sfidavamo in gare pazzesche, tipo i tiri da metà campo…
Potrebbe. Però io avevo una squadra mediocre e, corti come eravamo, riuscimmo a buttare fuori nei quarti di finale la Benetton di Obradovic, con una partita incredibile di Basile.
Fu in quell’occasione che esclamai, blasfemo al massimo: «Credo fermamente nell’esistenza di Dio». È mancato davvero poco per andare in paradiso.
Da giocatore, le olimpiadi di Roma 1960: a 18 anni fui inserito nel quintetto ideale dell’intera competizione, mai successo ad un altro italiano. Un sogno.
Da allenatore sono sempre stato chiamato per fare le promozioni: tra tutte scelgo quella con Siena, davanti a 9000 persone che cantavano la Verbena.
Da dirigente non ne ho nessuno: era una carriera che non mi interessava.
Mi piacerebbe che vincessero tutte e due le squadre visto quando sono legato ad entrambi gli ambienti. Impossibile vero? No perché se succedesse potrei rispolverare quella mitica frase: «Credo fermamente nell’esistenza di Dio».