Ho letto con attenzione l’editoriale di ieri di Andrea Confalonieri che difende il segretario varesino della Lega, Marco Pinti, per aver dato corpo con le sue parole – questa la tesi – a quanto “qualunque comune mortale dotato di un po’ di palle avrebbe detto vedendosi puntare alla gola un machete nel corso di un’amena passeggiata tra il campanile del Bernascone e via Morosini”. Lo spunto viene dall’appello che Pinti aveva lanciato all’indomani dell’aggressione, avvenuta giovedì scorso, da parte di una gang di stranieri: «Adesso basta, dateci il porto d’armi perché i cittadini hanno il diritto di difendersi».
Ora – dotato di apparato riproduttivo efficiente o meno – è ovvio che ogni varesino si sia sentito offeso, oltraggiato, impaurito dal comportamento dei tre ubriachi salvadoregni a zonzo per le vie del centro. Ed è probabile che in molti abbiano vagheggiato metodi spicci e sbrigativi per liberare le strade da tali personaggi. Quello del porto d’armi generalizzato – l’America lo testimonia – non pare però un espediente risolutivo. Spesso, anzi, si rivela un boomerang tremendo, con ragazzini armati a scuola e metal detector all’ingresso delle aule.
Ma il punto non è quale sia il sistema migliore per contrastare la criminalità disorganizzata, quella spicciola, quella che incontri per strada. Se sia meglio lasciar fare a polizia e carabinieri o cominciare ad arrangiarci per conto nostro in un fai da te dell’ordine pubblico sicuramente motivato – come sostiene Confalonieri nel suo intervento – ma altrettanto pericoloso. (…)
(…) Il punto sul quale dissento dal mio amico Andrea è sostanzialmente un altro: che si debba ringraziare chi si adopera per “dare sfogo alle paure e alle insicurezze della gente”. È proprio seguendo questi capi popolo che l’Italia è arrivata al punto attuale.
Il grado di civiltà di una società non si fonda sugli umori della piazza, che – la storia insegna – non ha il monopolio della verità. Alle ultime grandi sciagure del secolo scorso si è approdati a furor di popolo. Chiedere conferma a Hitler, Stalin o Mussolini.
La democrazia non è un sondaggio, altrimenti basterebbero la Doxa o Piepoli per far camminare il mondo. È un faticoso procedere tra esigenze diverse, una trama spesso labile che va tessuta giorno per giorno, sapendo che bisognerà mediare, cedere su alcuni punti per portarne a casa altri. Un lavoro politico, si diceva una volta, quando erano le idee a guidare il cammino e non le analisi delle intenzioni di voto.
Proprio per questo, ciò che “qualunque comune mortale dotato…” è autorizzato a dire in una discussione da bar, un politico dovrebbe pensarci bene prima di consegnarlo a microfoni, taccuini o social network. Non per cedimenti a “buonismo, ipocrisia e moralismo”, ma per compito istituzionale. È un opinion leader, influenza la coscienza del prossimo, le sue parole pesano più di quelle della gente che lo vota. Per questo dovrebbe valere, soprattutto per lui, quello che, già mezzo millennio prima di Cristo, sosteneva Buddha: “Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire”.
Se il metodo prendesse finalmente piede, avremmo sicuramente meno talk show, ma forse anche una società un briciolo migliore. Perché ha ragione Confalonieri quando afferma “meglio in piedi, vivi e fuori dalle righe che seduti, dormienti o addomesticati”. Ma è proprio perché tutti adesso sentono la necessità di andare fuori dalle righe che la pagina è diventata un illeggibile groviglio di scarabocchi.