Noi c’eravamo, ci siamo sempre stati.
Noi eravamo in una tenda all’addiaccio sul Mortirolo il 5 giugno del ’99 ad aspettare il volo più lungo del Pirata, che si sarebbe trasformato in Airone («Quel giorno sarebbe partito sulla prima salita e sarebbe arrivato da solo al traguardo in mezzo a un milione di persone, diventando Coppi» ci sussurrò poi tra le lacrime il grande Carletto, autista di Gianni Mura in mille Tour de France). Noi eravamo al funerale di Cesenatico,
tra cinquantamila persone che urlavano, insieme a mamma Tonina, «ce lo hanno ammazzato». Noi, i senza Pantani, abbiamo vagato 17 anni ) tra i chioschi, le pinete, i canali, il lungomare, le salite e i burroni senza mai dimenticare la frase che un angioletto biondo di 17 anni, in mezzo a quei cinquantamila, bandana in testa e lacrime più profonde del mare, pronunciò di fronte alla corona di fiori inviata dai grandi giornali (inutile fare nomi, sapete benissimo a quali ci riferiamo): «Gettate nel canale quella corona, e affondatela». Parole dettate dalla furia, una furia figlia del dolore, un dolore troppo grande di fronte a un sistema o colluso con ciò che era accaduto a Madonna di Campiglio, o incapace di ascoltare da subito il cuore della gente, l’unico da seguire per arrivare con diciassette anni di anticipo a quella che adesso viene dipinta come una grande verità o uno scoop, ma che in realtà era sotto gli occhi dei tifosi – solo dei loro – già allora: un omino vero come Pantani non avrebbe mai potuto tradire il ciclismo e i tifosi, che amava più della sua stessa vita. «Il Pirata è stato incastrato»: non era la sola a dirlo, mamma Tonina. Eravamo in tanti, forse tutti.
Tutti tranne le persone che contano: direttori di giornali, presidenti del Coni e della Federciclismo, conduttori televisivi. La morale di questa vicenda, perfetta per racchiudere l’Italia, è questa: ha avuto ragione il bandito Vallanzasca – ripete da sempre che il Pirata è stato incastrato per un giro di scommesse mafiose («Puntavano sulla sua sconfitta al Giro, per guadagnare milioni, anche quando l’aveva già stravinto. Quindi gli hanno fatto perdere il Giro scambiando o manipolando le provette del sangue») – e ha avuto torto l’intero gotha giornalistico, dirigenziale, politico del paese, che immediatamente aveva scaricato il “dopato” Pantani, dopo averlo cavalcato in lungo e in largo.
Non c’è nulla da esultare sapendo che tutto ciò che milioni di semplici tifosi pensavano già nel 1999, è venuto a galla con diciassette anni di ritardo. Una giustizia ritardata è un’altra ingiustizia: non accorcia la scia di sangue lasciata da Pantani o quella di dolore dei suoi familiari e della gente comune.
L’uomo-cittadino-atleta Pantani, e tutti gli uomini-cittadini-atleti come lui, nel momento del sospetto o del tranello, sono stati abbandonati a se stessi e lasciati morire invece di essere protetti, tutelate e salvati.
“L’ultimo bacio”, strillavano le locandine del “Corriere di Cesena” bagnate dal sangue di Pantani il giorno di quei funerali: dovevano aggiungere, “Il bacio di Giuda”. Disse quel giorno Arnaldo Pambianco, l’ultimo romagnolo prima di Marco ad avere vinto il Giro, nel ’61: «Ad essere troppo bravi nella vita si paga un prezzo alto. Chi ha ucciso Marco deve andare all’inferno, deve bruciare vivo, perché Marco non era un ragazzo da corteggiare. Se aveva fatto i soldi era perché correva in bici, si ammazzava di fatica. Quegli avvoltoi lo hanno assalito. Marco aveva cercato di risalire in bicicletta, ma non glielo avevano permesso. Lo sono andati a prendere a Madonna di Campiglio con otto carabinieri, mentre per Toto Riina erano in due. Non guarderò mai più una gara di ciclismo». Parole sante.
Come quelle di Marco Velo, che ebbe la “colpa” di dire prima di chiunque altro che «una vita fu spezzata il 5 giugno a Campiglio. Quella fu un’autentica, gigantesca e mortale trappola ammazza-Pirata». È giusto ricordare anche questo Marco, che non ha sofferto meno dell’altro Marco. E di tutti noi che gli abbiamo sempre creduto.