Quando, la sera del 10 ottobre ’69, cedette a un infarto nella sua villa di via Sanvito dopo aver visitato in giornata – con piglio garibaldino nonostante gli 87 anni già compiuti – uno dei negozi di Lugano del Calzaturificio, molti ne ebbero sincero dispiacere. Tra di loro, gli abitanti del quartiere di Avigno, cui aveva donato un asilo infantile in memoria della figlia Jolanda, morta di “spagnola” a soli quattordici anni. Tra di loro, i soci della Famiglia Bosina, della quale nel ’56 era stato il primo “resgiou” con il motto: valorizzare il passato della nostra Varese e tenere bene aperti gli occhi sul futuro. Tra di loro, i dirigenti dell’ospedale di Circolo, che aveva goduto di miglioramenti strutturali e funzionali grazie alla sua generosità e sul quale egli aveva fatto scrivere un libro i cui proventi erano serviti a finanziare una singolare galleria artistica dei benefattori.
Il giorno dei funerali, fu esaudito l’ultimo suo desiderio: fargli transitare anche da morto le vie ch’era solito percorrere da vivo. Il giro cittadino compiuto dal feretro non risultò breve, dato che Ermenegildo Trolli era stato di gamba buona oltre che di puntuta curiosità e le sue uscite andavano sempre per le lunghe. Ma fu un giro che meritò d’essere effettuato, come dimostrò la folla che fece ala al mesto corteo.
Qualche anno prima della sua scomparsa, l’imprenditoria varesina s’appese al petto una delle più lucenti medaglie al valore della sua non ancora troppo lunga storia. Il Trolli, esponente di spicco di quella generazione che aveva coraggiosamente investito intelligenza e risorse nel lavoro, venne infatti nominato presidente dell’Associazione nazionale dei calzaturifici italiani, incarico poi ricoperto per un decennio. Fu un evento accolto con speciale orgoglio dai concittadini, che avevano imparato a conoscere il “sciur Gildo” non solo come l’avveduto e lungimirante amministratore di un’azienda di successo, ma come l’uomo capace di frequenti gesti di benevolenza e generosità. Non l’unico, all’epoca, e tuttavia uno che avrebbe lasciato il nome e le opere nelle cronache della memoria locale.
Era stato il fortunato precursore d’un nuovo modo di produrre e vendere insieme la merce fabbricata. Capì infatti che ben diversa sarebbe risultata la redditività delle scarpe realizzate dall’impresa Trolli e Bernasconi alla cui guida egli s’era insediato nel 1908, dopo la morte del padre Luigi, se oltre che prender forma negli specializzati laboratori artigianali, esse fossero state proposte direttamente ai clienti in negozi solo a quest’incombenza adibiti. Ciò che non era ancora accaduto in nessun’altra parte d’Italia, accadde dunque qui. La ditta, preso il nome di Calzaturificio di Varese, fece presto a raccogliere consensi e ottenere rinomanza non solo per via della buona qualità dell’offerta, ma anche in conseguenza dell’acume e dell’ardire del Trolli che decise d’aprire in un numero sempre crescente di città italiane (e poi anche della Svizzera) esercizi commerciali “clonati” da quello bosino.
Uomo di genio, dunque. Se ne accorsero i tanti che vennero alla sua corte per capirne meglio, e se del caso copiarne, le idee. Ma nessuno riuscì a trasformarsi nel felice “doppio” d’un personaggio assolutamente unico. Che fosse destinato a seguire percorsi non alla portata di tutti, l’aveva immaginato il padre che, non appena il figliolo ebbe concluso gli studi commerciali, lo aveva spedito a fare esperienza in aziende di pellami e scarpe di Germania e Svizzera, paese quest’ultimo nel quale il ragazzo si recava volentieri, essendovi nata la madre Carmela Rampoldi. Al ritorno, Ermenegildo si dimostrò rapido nel mettere a frutto gl’insegnamenti ricevuti e abile nel far progredire il calzaturificio anche negli anni difficili della prima guerra mondiale e in quelli ancor più grami del periodo post bellico.
Comprese che un grande imprenditore dev’essere attento a quanto succede fuori del suo circoscritto mondo produttivo e non lesinò la disponibilità a ruoli di carattere sociale. Fu per esempio fra i fondatori, nel ’19, dell’Istituto autonomo case popolari, che provvide a edificare numerosi alloggi per accogliere decorosamente lavoratori costretti a vivere in condizioni cronicamente difficili e qualche volta di disagio estremo. E nel ’23, quando il re Vittorio Emanuele III venne in città proprio per inaugurare le prime abitazioni costruite per tale bisogna, gli rese omaggio con gli occhi inumiditi, tanto che agli amici era solito ricordare quella giornata come una delle più memorabili della sua vita.
Non contento d’aver compiuto un autentico capolavoro con il Calzaturificio, fondò anche la Primaria Valigeria Italiana e assolse altri incarichi di particolare prestigio. Venne per esempio nominato, nel ’28, presidente del neonato Rotary Club locale e, sempre in quell’anno, entrò a far parte del consiglio d’amministrazione dell’appena costituita Società editoriale varesina editrice del quotidiano “Cronaca Prealpina”, fondato nel 1888 da Giovanni Bagaini, poi estromesso dal giornale per volere del fascismo.
La stampa esercitò sempre un grande fascino su di lui. Nel maggio del 1934 volle dar vita a un periodico per dare conto delle novità nell’evoluzione produttiva e delle vicende di piccola vita aziendale del Calzaturificio, e per diffondere note storiche, artistiche, culturali del territorio. Ne affidò la direzione a Umberto Bagaini, figlio di Giovanni, fors’anche per aiutare economicamente la famiglia. Bagaini junior gli confezionò per molti anni un gioiello editoriale rimasto nella storia della città, anche se ormai poco conosciuto. Se non del tutto ignoto.
Pur se gratificato da onorificenze come meglio non si sarebbe potuto negli anni del fulgore mussoliniano, il Trolli non fu mai prono a cervellotiche direttive. Accettò il minimo che gl’imprenditori del tempo, se volevano continuare a fare gl’imprenditori, dovevano accettare. Ma lo fece col massimo della dignità personale, tenendo lontano da sé il cialtronismo dilagante e tenendosi stretta la convinzione che altri meritavano d’essere aiutati per il futuro d’un Paese che coltivasse la speranza d’averne ancora uno. Il sostegno, economico e non solo, dato ai partigiani sul finire della guerra l’avrebbe costretto, assieme al fratello Guido, alla fuga dall’amata Varese. Il rifugio nell’istituto Gonzaga di Milano gli evitò le ritorsioni dei repubblichini.