La memoria inizia già ad opacizzare la quotidianità indiana di quest’estate, perciò fisso dei ricordi dell’ultima settimana passata a Jaipur e li tengo vicini.
Tra questi, quelli più importanti riguardano i tanti incontri fatti: quelli con le mamme-studentesse, i più divertenti e quelli più commoventi, come gli addii.
L’istruzione è una questione sentita in India. È importantissima, fatto di vanto e stima, ma non è forzata nell’infanzia. Quando le mattine di luglio quasi tutti quelli dello slum di Jagatpura riprendevano scuola dopo la pausa di giugno nella loro candida uniforme bianca e blu sapevo che li avrei rivisti poi al pomeriggio nei loro abiti colorati e consunti.
Arrivando col pulmino nella via invece incontravo i bambini rimasti che già aspettavano sulla soglia.
Mentre insegnavo alle loro mamme il “present continuous”, cercavo di tenerli impegnati con svaghi e giochi educativi.
A volte però, sotto insistenza, affidavo loro la fotocamera del mio telefono e li vedevo subito scappare fuori dalla scuolina euforici.
Tutto sommato la più soddisfatta a fine giornata ero io, che la sera vedevo le loro foto fatte nel quartiere.
Le più belle quelle in compagnia del Mickey Mouse dipinto sulla facciata della scuola o quella con loro facce sfocate in primo piano che cercano di fare un selfie.
Certo hanno voluto scattarne anche con me: però a differenza di quanto sono abituata, le foto di gruppo degli inizi appaiono già calde e accorate, mentre le ultime sono tristi.
Si legge il dispiacere di veder andare via a poco a poco i volontari stranieri con cui si erano abituati a giocare.
In realtà non ho avuto che un assaggio di cosa significhi insegnare ad una classe, ma ho provato a calarmi con passione nel ruolo.
La sera mi consultavo per preparare le lezioni del giorno dopo e assemblavo di mio pugno materiale inedito.
I bambini potevano essere una quindicina come il doppio, quindi bisognava star pronti. Strano a dirsi però, che fu uno degli ultimi giorni quello in cui ottenni la loro totale attenzione.
Appesi il mappamondo ed iniziai a raccontare a ruota libera quello che mi ricordavo dei continenti e della storia antica dei popoli. Mi ascoltavano affascinati, dato che non avevano ancora sentito parlare delle piramidi egizie e non conoscevano la forma dell’Italia. Chiedevano: «L’India è lì? Ma il mondo è così grande?».
Per celebrare il tempo passato insieme, l’ultimo giorno – che prima o poi doveva arrivare – decisi di dare una festa: la mattina con le donne tatuaggi di hennè, acconciature e dolcetti indiani; al pomeriggio merenda, palloncini, balli e giochi di gruppo.Per tutti, una collanina di benvenuto di fiori di carta.
Prima di salire sul bus Rahit, sua sorella Muskan, Pushpa e Karina mi si avvicinarono per darmi delle letterine elaborate, che in un inglese comprensibile ma un po’ sgrammaticato, iniziavano tutte così: «Dear Frenchisika Didi (sorella maggiore), why you go back your country. We miss you, come back soon – Cara Francesca, perché torni al tuo Paese? Ci mancherai tantissimo, torna presto a trovarci».
PS: Gheeta non venne alla festa, così andai a cercarla a casa. La abbracciai e lei per tre volte mentre mi allontanavo mi trattenne la mano. Non voleva lasciarmi andare, come io non volevo lasciar andare lei e l’India.