Caro Massimiliano, oggi la tua bimba sarebbe orgogliosa del suo papà Gibe

L’editoriale del nostro Francesco Caielli

Noi non lo sappiamo cosa c’è dentro il cuore di quel padre, cosa si rincorre nella sua mente. Nemmeno ci proviamo a immaginarlo, il male dentro che prova un papà che ha visto morire la sua bambina a quindici anni. Possiamo limitarci a vedere, ascoltare e provare a raccontare quello che succede attorno a una storia sbagliata come quella di Erika, volata via in una notte di febbraio.
Noi possiamo limitarci a vedere e raccontare qualcosa come quella che è

successo ieri, per capirci. Quelle magliette appoggiate su un tavolo, arrivate da tutta Italia, che davvero sono il frutto dell’ultimo miracolo di Erika Gibellini. Perché i ragazzi della curva ci avevano provato e l’avevano buttata lì, chiedendo ad alcuni dei giocatori passati da Varese negli anni scorsi di mandare le loro maglie autografate e personalizzate con la scritta “Fuck the cancer” (Fanculo al cancro, per essere chiari). Ci avevano provato e l’avevano buttata lì, sperando che qualcuno rispondesse per tirare su qualche soldo da dare in beneficenza. E invece, cara Erika, guarda un po’ cos’è successo. La voce è girata, e qui sono arrivate le maglie di tutti: da Icardi e Pavoletti, fino a quella dell’Astana di Nibali e tutte le altre che quei ragazzacci che hanno organizzato il tutto non ci hanno ancora svelato. Tanta roba, davvero: con il ricavato la Fondazione Ascoli metterà in piedi una camera sterile all’ospedale di Varese, dove verranno curati i bambini colpiti da quel male bastardo che si è portato via Erika.
Tanta roba, davvero. Che qui ci siamo consumati le dita a scrivere e parlare di un mondo del calcio che non ci piace e regala soltanto storie negative, e invece adesso ci troviamo a raccontare di questa ragazzina capace di spostare le montagne anche soltanto con la forza del ricordo che ha lasciato, Andate a raccontarlo a qualcun altro, adesso, che questa roba qui è normale. Andate a raccontarlo a qualcun altro che il Varese (questo Varese) è solo una squadra di calcio e che il Franco Ossola è solo uno stadio. Andate a raccontarlo a qualcun altro che i ragazzi della curva son solo dei mezzi delinquenti che la domenica non hanno niente da fare, perché la storia che stiamo raccontando – con buona pace dei perbenisti che sono abituati ad etichettare tutto e tutti – è partita proprio da loro. E andate a raccontarlo a qualcun altro che dal dolore non può nascere nulla di buono. Perché no, noi nemmeno ci immaginiamo quello che sta devastando il cuore e le viscere di Papà Gibe: ma sappiamo, perché lo stiamo vedendo, il modo in cui ha scelto di reagire alla sua tragedia personale.
Piangendo e incazzandosi, andando tre volte al giorno al cimitero, macerandosi nelle domande senza risposta. Ma anche – anzi, no: soprattutto – continuando a tenere per mano la sua bambina. Facendo cioè quello che ogni padre cerca di fare, tutti i giorni: vivere in modo che i suoi figli siano orgogliosi di lui.
E a noi adesso ci pare di vederla, Erika. Guardare il suo papà con quello sguardo lì: lo sguardo di una figlia che guarda il suo eroe.