Noi non lo sappiamo cosa c’è dentro il cuore di quel padre, cosa si rincorre nella sua mente. Nemmeno ci proviamo a immaginarlo, il male dentro che prova un papà che ha visto morire la sua bambina a quindici anni. Possiamo limitarci a vedere, ascoltare e provare a raccontare quello che succede attorno a una storia sbagliata come quella di Erika, volata via in una notte di febbraio.
Noi possiamo limitarci a vedere e raccontare qualcosa come quella che è
successo ieri, per capirci. Quelle magliette appoggiate su un tavolo, arrivate da tutta Italia, che davvero sono il frutto dell’ultimo miracolo di Erika Gibellini. Perché i ragazzi della curva ci avevano provato e l’avevano buttata lì, chiedendo ad alcuni dei giocatori passati da Varese negli anni scorsi di mandare le loro maglie autografate e personalizzate con la scritta “Fuck the cancer” (Fanculo al cancro, per essere chiari). Ci avevano provato e l’avevano buttata lì, sperando che qualcuno rispondesse per tirare su qualche soldo da dare in beneficenza. E invece, cara Erika, guarda un po’ cos’è successo. La voce è girata, e qui sono arrivate le maglie di tutti: da Icardi e Pavoletti, fino a quella dell’Astana di Nibali e tutte le altre che quei ragazzacci che hanno organizzato il tutto non ci hanno ancora svelato. Tanta roba, davvero: con il ricavato la Fondazione Ascoli metterà in piedi una camera sterile all’ospedale di Varese, dove verranno curati i bambini colpiti da quel male bastardo che si è portato via Erika.
Tanta roba, davvero. Che qui ci siamo consumati le dita a scrivere e parlare di un mondo del calcio che non ci piace e regala soltanto storie negative, e invece adesso ci troviamo a raccontare di questa ragazzina capace di spostare le montagne anche soltanto con la forza del ricordo che ha lasciato, Andate a raccontarlo a qualcun altro, adesso, che questa roba qui è normale. Andate a raccontarlo a qualcun altro che il Varese (questo Varese) è solo una squadra di calcio e che il Franco Ossola è solo uno stadio. Andate a raccontarlo a qualcun altro che i ragazzi della curva son solo dei mezzi delinquenti che la domenica non hanno niente da fare, perché la storia che stiamo raccontando – con buona pace dei perbenisti che sono abituati ad etichettare tutto e tutti – è partita proprio da loro. E andate a raccontarlo a qualcun altro che dal dolore non può nascere nulla di buono. Perché no, noi nemmeno ci immaginiamo quello che sta devastando il cuore e le viscere di Papà Gibe: ma sappiamo, perché lo stiamo vedendo, il modo in cui ha scelto di reagire alla sua tragedia personale.
Piangendo e incazzandosi, andando tre volte al giorno al cimitero, macerandosi nelle domande senza risposta. Ma anche – anzi, no: soprattutto – continuando a tenere per mano la sua bambina. Facendo cioè quello che ogni padre cerca di fare, tutti i giorni: vivere in modo che i suoi figli siano orgogliosi di lui.
E a noi adesso ci pare di vederla, Erika. Guardare il suo papà con quello sguardo lì: lo sguardo di una figlia che guarda il suo eroe.