Ha giocato in serie B con la Pro Patria, in serie A con la Spal, addirittura ha vestito la maglia azzurra, abita in quel di Ferrara, eppure le vene di (1945) pulsano come in età giovanile quando parla della sua Borsanese, la squadra nella quale ha cominciato a giocare a pallone.
«Avevo sei anni e sono rimasto lì fino ai quattordici quando sono andato alla Pro Patria». E quasi a suggellare che la Borsanese sia ben custodita nel suo cuore, la chiacchierata è in uno spontaneo dialetto borsanino. Si perché, chi non lo sapesse, esiste sì la parlata bustocca, ma Borsano come Sacconago, hanno delle proprie inflessioni e chi lo parla, quell’idioma, è facilmente identificabile.
È il fratello di Carluccio del quale si gioca oggi il torneo in sua memoria ed anche un terzo fratello (Luigi) ha giocato a pallone cominciando a dare calci sempre nella Borsanese. Rivela Gianfranco:«Nella Borsanese “ga giugò tul Borsan”: padri, figli, nipoti. Giocava mio papà Peppino». E la passione per il pallone, “par ul Bursan”, arriva sicuramente da lì, in ossequio al principio dei vasi comunicanti.
Se oggi la Borsanese festeggia i suoi novant’anni di vita, per Gianfranco il merito va ad una persona che si chiamava «, detto “ul russu”, perché aveva i capelli con una spruzzatina di rosso e, nei paesi si sa, si fa in fretta a dare i soprannomi. Tanto per stare in tema, noi De Bernardi ci chiamavano quelli del “batel” e non ho mai saputo il perché».
«All’inizio degli Anni 50 – racconta – “ul russu”, va in Comune a chiedere un terreno per costruire il campo e che non sia molto lontano dal paese, dice. Incontra l’assessore di allora e si fa firmare una carta con tanto di timbro del Comune che assegnava il lotto dove ora sorge il campo. Una mattina, però, mio papà mi sveglia e mi dice “Franco “ghe lì i ruspi”, su quel terreno ci sono le ruspe per cominciare gli scavi e costruire un palazzo.
Avverte il Colombo che va in Comune. La giunta era cambiata e l’assessore di turno non riconosce valido quello scritto. Non so cosa sia successo dopo di preciso tanto che si parlava che “ul russu” avesse addirittura ipotecato la casa per la Borsanese, lui che aveva quattro bambine piccole ed una moglie un po’ cagionevole. Morale: salva il campo e salva la società e se oggi la Borsanese gioca lì, il riconoscimento va a Mario Colombo. Lui è stato il perno sul quale ha ruotato il tutto».
«Non sono così stupido da non sapere – precisa Gianfranco – che se la società è andata avanti il merito è di tutti coloro che sono venuti dopo. Però su “ul russu” si poggia la storia della Borsanese».
Continua: «Era un personaggio che viveva al campo. Abitando di fronte, lo vedevo segnare le righe del campo, mettere le reti alle porte e, durante le partite, incitare con il suo “forza azzurri” trascinando anche gli altri che erano lì a vedere la partita. Oggi, un personaggio così alla Borsanese lo vedo nel
: fa la vita al campo».
Giancarlo è un fiume in piena. Anzi sembra di vederlo correre sulla fascia tanto da essere imprendibile con la sue mitiche accelerazioni: «La sede era allora al circolo San Pietro e alla domenica mattina si usava esporre la bandiera quando la Borsanese giocava in casa. Da bambino mi alzavo presto ed andavo all’angolo della strada e se vedevo lo stemma del Borsano ero felicissimo».
La voce di Gianfranco si però fa roca quando viene sollecitato a tratteggiare la figura di Carluccio, scomparso nel 2009 ad appena cinquantasette anni per un male incurabile. Deglutisce e poi comincia:«Ul Carluccio? Una persona modesta. Di più, molto modesta. Finita la partita lo aspettavo fuori dallo stadio e gli dicevo “ohè bogia”, lo chiamavo così, oggi hai giocato bene e lui mi rispondeva che era andata bene. Quando segnava e ne ha fatti 118 tra serie A, B e C, gli dicevo “ohè bogia che bel gol” e lui mi diceva “sono stato fortunato”. Il mio Carluccio aveva il fiuto del gol. Io ero diverso: mi piaceva andare via sulla fascia, scartare il terzino e fare il cross».
E se il dio pallonaro fosse stato più clemente, Carluccio avrebbe potuto far parte del Verona scudettato di Bagnoli. Rivela Gianfranco: «Il Cesena di Bagnoli aveva battuto l’Atalanta e il Carluccio giocava a Bergamo. Dopo la partita lo vado a prendere per portarlo a casa mia, a Ferrara. Sulla strada ci ferma Bagnoli, col quale avevo giocato nella Spal, e dice al Carluccio che vuole portarlo a Verona perché lui sta andando là ad allenare. Carluccio accetta subito. Purtroppo, per un’operazione di mercato che il presidente del Verona fa col Cesena e che Bagnoli non sapeva, Carluccio non vi rientra. A Bagnoli dispiace e chiama il Carluccio. Lui rimane a Bergamo e con i suoi gol l’Atalanta la riporta in serie B».
L’album dei ricordi è più aperto che mai. E Giancarlo ci tiene a dire un’ultima cosa: «Se il campo di Borsano è intitolato al Carluccio, sono certo che lui, nel suo cuore, per trequarti lo avrà dedicato al “russu” e l’altro quarto a tutti gli altri. Lo so che ancora oggi il mio Carluccio vuole bene alla nostra Borsanese».