L’emozione condivisa che sa regalare l’anima sportiva

Il mio esordio sulle gradinate del “Lino Oldrini” avvenne nella stagione del ritorno in A1 della Pallacanestro Varese, anni Novanta: una fredda giornata primaverile, acqua a catinelle, ma dentro il palazzetto il calore di un pubblico da tutto esaurito. Feci il tifo per Arijan Komazec, astro nascente, sino a spellarmi le mani. Da allora non avrei più perso una partita per almeno un decennio.
Ad iniziarmi a quella passione furono due persone. Anzitutto mio papà,

innamorato di uno sport che visse dapprima come giocatore e piccolo tifoso – otto anni in maglia Ignis, leva allievi juniores – e dopo da fedele cronista. Amava raccontarmi tanti aneddoti legati alle trasferte in tutta Europa al seguito della squadra, ma prima ancora dei pomeriggi dell’adolescenza trascorsi a rubarsi un posto sulle spalliere svedesi, nella palestra di viale 25 Aprile, con il figlio di Garbosi, allenatore del primo scudetto nonché suo dirimpettaio di appartamento. E poi mio nonno, il cui affetto per la città e i colori biancorossi lo spinsero con me a Masnago finché la salute poté permetterglielo. Insieme, mio nonno, mia sorella ed io avremmo visto Varese vincere molte volte, e insieme festeggiammo lo scudetto della stella: era una calda serata di maggio, girammo a lungo in auto, suonando il clacson a distesa, nella città in festa.
Il basket rappresenta per me uno dei fili più belli e colorati della trama con cui intreccio i ricordi della vita familiare. Un’emozione che mi piace pensare possa continuare a ripetersi per intere generazioni di varesini, e di cui oggi trovate eco condivisa nelle pagine di sport. Buona lettura.