Tra le mura della Quiete abita l’amore per l’altro

Un anno fa il mio amato papà partiva per il suo viaggio più lungo. Negli occhi porto ancora il suo ultimo sorriso, che mi rivolse quasi volesse tranquillizzare me e la mamma: persino in quell’istante cercò di proteggerci. E’ un ricordo che mi ferisce e, insieme, mi conforta. Ci penso molto, ci penso sempre. E in queste settimane, se possibile, ci penso anche di più. Perché dal dibattito sul futuro de La Quiete riaffiorano mille ricordi.

Proprio lì, nella clinica varesina, papà ha trascorso gran parte dei suoi ultimi mesi. Mamma passava al suo fianco l’intera giornata. Io andavo a trovarlo nel tardo pomeriggio, dopo il lavoro. Visite trafelate, sballottate da un quotidiano stress che aveva il merito di arginare l’angoscia. Eppure, col tempo, qualunque dramma alleva in sé l’embrione della consuetudine: come se gli anticorpi emotivi scavassero una nicchia per ovattare il patimento. E oggi, nella memoria, vedo sfilare le rituali sequenze di quei mesi. Il maestoso cancello, lo splendido viale alberato. L’ascensore antico, più lento dell’altro ma molto più affascinante per chi, come me, ama i rimandi hitchcockiani. Volti e voci di medici, infermieri e assistenti, che vegliavano su papà, lo coccolavano, lo accudivano con dolcezza e dedizione. Perciò tremo quando sento parlare de La Quiete come di un’azienda qualsiasi. Non lo è. E’ un luogo di sofferenza e di cura, di sussurri e di grida, di carezze e di sguardi che tutto avvolgono e tutto trasformano. Persino i tramonti, visti da lì, presentano tinte diverse. Perciò vi prego: quando sedete al tavolo per discuterne o per scriverne, pensateci. E non dimenticate che tra quelle mura abita l’amore per l’altro. Un patrimonio che non va sprecato né svilito.