Ieri mattina ho fatto colazione, come ogni giorno, con il mio adorato bimbo. Aveva la solita aria dolcemente assonnata, i capelli arruffati, gli occhi azzurri ancora velati dai sogni. Ogni tanto me ne racconta qualcuno: sono storie che a volte lo spaventano, ma di solito finiscono bene. Specialmente se arriva il conforto della mamma. Il risveglio mi dà l’idea, forse banale però vera, della vita che ricomincia. E di un mistero che si perpetua, perché la vita va avanti diritta,
anche quando tutto gira storto. Ieri mattina ho pensato che quest’idea va aggiustata. Che la vita, oltre a essere un mistero, è un miracolo. Mentre il mio piccolino intingeva i biscotti nel latte, sono di nuovo passate sul televisore le immagini di Omran, il fanciullo salvato tra le macerie ad Aleppo. Le gambine ciondoloni, le mani appoggiate alla plastica arancione di un seggiolino, la maglietta con sopra un cartone animato ricordavano pose comuni a milioni di bimbi come lui. Ma i colori dell’orrore davano a Omran la sua vera identità di scampato alla morte: il sangue di una ferita alla testa, la polvere grigia e nera del cemento divelto, le ecchimosi viola e blu sulle ginocchia. E la fissità angosciata dello sguardo, che si chiede il perché di una cosa tanto incomprensibile. Ho accarezzato Carlo, che ha un anno meno di Omran. E mi è sembrato di accarezzare Omran. Di sorridere con loro, di dargli il buffetto del buongiorno, poi di accompagnarli insieme al parco giochi. Ho immaginato che un felice sortilegio possa mettere fine a una tragedia che pare infinita, e che al miracolo che ha salvato un innocente possa seguire quello che redime molti colpevoli. Troppi.