Nell’autunno scorso il sindaco di Varese, accogliendo una mozione del consiglio comunale e seguendo l’esempio dei confinanti svizzeri del Canton Ticino, firmò l’ordinanza contro l’utilizzo del burqa in pubblico. Poi ne chiese l’autorizzazione operativa al prefetto. Siamo ancora in attesa dell’ok. E ci resteremo per un bel pezzo, essendo impedito al prefetto (e al governo) di consentire ciò che la legge non prevede. In Italia manca una normativa esplicita al riguardo, pur se la commissione affari costituzionali della Camera ha trovato la sintesi su un provvedimento ad hoc.
Lo dovrà discutere l’aula parlamentare, forse già il mese venturo. I tempi dell’eventuale approvazione s’annunciano lunghi, dati i passaggi previsti tra Montecitorio e Palazzo Madama. Per il resto, esiste la legge Reale risalente all’epoca del terrorismo politico (anni Settanta) che solo una forzata interpretazione, sinora istituzionalmente rifiutata, ritiene applicabile al caso del burqa. Il problema, nell’attesa della soluzione legislativa sul fresco esempio tedesco, rimane culturale. Cioè: chi vive in un Paese, deve rispettarne usi, consuetudini, sensibilità; tradizioni, regole, storia. Gli tocca adeguarsi, gli è negato imporsi. Specie se questo Paese, pur garante della libertà d’idee e comportamenti, vive di paure/ insicurezze/ angosce create non dal suo esclusivismo antropologico-esistenziale, ma dagli altrui fondamentalismi religioso-sociali. Accettare il burqa è un obliquo assuefarsi al principio della coesistenza liberale; un rovesciamento del concetto d’integrazione; un favore al populismo nemico della democrazia.