Martedì scorso i dipendenti di Alenia Aermacchi hanno nuovamente scioperato. A differenza di tante altre imprese che vivono fibrillazioni analoghe, l’azienda del volo non è in crisi.
La recente commessa israeliana e quella polacca (quasi 900 milioni di euro in tutto) hanno restituito ossigeno e ridato slancio a produzione e bilanci, consolidando la leadership di mercato dell’M-346, magnifico addestratore forgiato nell’era Brazzelli.
Il problema, quindi, non è relativo a tagli, esuberi o altri drammi tristemente diffusi, ma alla fine di un’epoca. Più volte paventata e ora ufficialmente raggiunta, certificata. La fine di un’eccellenza, la fine di una tradizione, la fine di una lunga Storia cominciata oltre cent’anni fa e oggi relegata a un cumulo di malinconici e ingialliti libri dei ricordi. Tanto per incominciare, di recente, la Macchi ha perso la testa.
A Venegono è rimasta la ragione sociale e la sede ufficiale dell’azienda. M tutto il resto è volato via. A Torino, Roma, Napoli, Venezia.
Ovunque, ma lontano da Varese. La provincia con le ali si è vista strappare il cervello, il cuore, la strategia.
Persino le regole interne all’azienda, cementate da anni di consuetudine, sono state scosse, sconvolte, rivoluzionate (i maligni dicono “romanizzate”, riferendosi all’effetto Finmeccanica). Ma c’è di più. E di peggio.
Fino a qualche anno fa Aermacchi era un’azienda grande ma a misura d’uomo. Ci si conosceva, ci si chiamava per nome, si notavano le assenze di Tizio, il matrimonio di Caio, il pensionamento di Sempronio. Ora non è più così. In ditta, ci raccontano molti lavoratori, si aggirano volti nuovi e presenze effimere.
Non fai in tempo a entrare in confidenza con uno che quello sparisce, sostituito da un altro. E avanti così. Servizi amministrativi, di custodia e altre mansioni non sono più “della Macchi”, ma affidati ad altri. È la esternalizzazione, bellezza.
Il lato più malinconico delle multinazionale. Che lascia a casa migliaia di giovani diplomati varesini, evita spostamenti orizzontali o riconversioni del personale interno, e delega alcuni compiti a figure terze. «Temo che sia l’anticamera del trasloco all’estero», sussurra, angosciato, uno scioperante, poco più che trentenne. «Una volta», incalza un collega, «alternavamo produzioni militari e civili, a seconda del periodo, delle esigenze, delle congiunture. Oggi non è più così».
Tutto appare rigido, farraginoso, impersonale. E poco varesino. Efficiente, magari, ma completamente privo di quell’afflato romantico che caratterizzava l’atmosfera del colosso di Venegono.
Quell’affascinante senso di appartenenza, quel misto di passione e di competenza che affondavano le radici nella notte dei tempi, e che esplosero, per l’ultima volta, dieci anni fa, di fronte al primo decollo dell’M-346. Fu quella l’ultima foto di una grande famiglia che oggi vediamo disgregata. Dimenticando, forse, che i gioielli venduti a Israele e Polonia sono il frutto dello splendore passato, non del burocratizzato presente. Tempo fa, quand’era ministro, Roberto Maroni riconobbe l’esigenza di combattere affinché l’anima della provincia con le ali restasse qui. «La Macchi è sempre la Macchi», sentenziò. Mi spiace, caro presidente, ma non è così. Quella Macchi lì non esiste più.
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