Il nome Acquerello rimanda al mondo della pittura ed entrando nel ristorante di Silvio Salmoiraghi, in via Patrioti a Fagnano Olona, si respira subito aria di grande arte.
Nella piccola sala affrescata con eleganza, splende il sorriso di Giulia Dalle Vedove, che da solo vale il viaggio. Il suo volto solare è la prima emozione forte di un locale in cui la bellezza spicca nei piatti studiati a fondo, con fine conoscenza della tecnica, o improvvisati, su ispirazione di un estro irruente e anticonformista, dallo chef che la sa lunga.
Il suo lungo tirocinio si è svolto all’insegna dell’eccellenza e dell’internazionalità: e , due tra i più intelligenti e innovativi cuochi della ristorazione italiana, sono stati suoi maestri, proprio come il gigante . Dopo aver girato il mondo, per confrontarsi con i colleghi più affermati a livello planetario, Salmoiraghi ha deciso di mettere radici nella sua Fagnano, per avviare un progetto all’insegna della forma armonica e pulita ma anche della freschezza e della gioventù.
Tutta la sua squadra – a partire dall’incantevole – è giovane e piena di entusiasmo. Far nascere piatti nuovi e sorprendenti è facile per un cuoco il cui lavoro non è rimasto nascosto, dal 2007, in un paese della provincia di Varese. Perché la sua fama e la sua bravura gli hanno permesso di vincere un’agguerrita concorrenza e di diventare chef dell’Antica Osteria del Ponte a Cassinetta di Lugagnano, il tempio italiano del gusto guidato per 35 anni da , artista impareggiabile in cucina e cultore della bellezza.
La penna passa ora a Silvio Salmoiraghi.
«La mia passione per la cucina nasce dal piacere di mangiare. Amo la pasta, i gusti puliti, senza salse o altri condimenti. Mi rendo conto di non essere convenzionale ma non sopporto il banale, l’ovvio o lo stereotipato. Non ho mai concepito la mozzarella, il pomodoro o le acciughe in un grande ristorante: vanno bene nei chioschi di strada, magari in quelli di Napoli, dove sono delle bandiere, ma non in un atelier del gusto all’insegna dello stile. Il mio si è formato anche grazie al confronto con i maestri importanti che ho avuto.
Dopo aver frequentato a Varese la scuola alberghiera e essermi diplomato, all’inizio degli anni Novanta, ho avuto una opportunità in Svizzera che però si è rivelata pessima: nelle cucine dei Grand Hotel in cui lavoravo si sentiva principalmente l’odore di glutammato (additivo usato come esaltatore dei sapori, ndr) e mi sono spaventato. Per fortuna, però, ho potuto dimenticare subito l’esperienza negativa andando a lavorare a Milano da Pietro Leemann, lo svizzero che è diventato uno dei grandi innovatori della cucina italiana con il suo locale “Joia Alta Cucina Naturale” (il primo ristorante vegetariano europeo ad aver ricevuto una stella Michelin nel 1996 e unico stellato vegetariano in Italia, ndr).
Il suo modo di concepire la cucina nasce dalla considerazione che noi siamo lo specchio del cibo che mangiamo e il mio stile ha iniziato a prendere un’impronta grazie a lui.
Mi sono potuto sentire presto in Serie A e poi sono riuscito a entrare addirittura nelle grazie di Gualtiero Marchesi. Dopo uno stage, sono stato assunto all’Albereta di Erbusco e ho partecipato a molte sue trasferte internazionali, lavorando a Parigi, dove, per due anni, ho animato la sua cucina del Lotti.
Da Marchesi in poi non ho mai cambiato il mio modo di intendere la gastronomia, che per me è un’arte pulita, formata su un gusto pulito. Al centro del piatto c’è il materiale, il cui sapore deve essere ben riconoscibile e per questo non devono esistere intingoli o altre cose del genere, che non appartengono nemmeno alla tradizione italiana. La nostra non è mai stata una cucina di insalsatori e c’è un’immagine che è ben più eloquente di molte parole.
Vi ricordate “Un Americano a Roma”, il film in cui Alberto Sordi divora un piatto di pasta? Ebbene, mentre il protagonista Nando Mericoni alza la forchettata di spaghetti, il sugo non gronda nel piatto.
Essere italiani oggi, significa avere ben presente la nostra tradizione e vuol dire capire queste cose. Adesso, più che mai, ci vuole chiarezza: una pizzeria deve fare solo la pizza e un ristorante proporre solo cibi da ristorante.
Nel 1997, ho partecipato a un meeting in cui le stelle erano Marchesi e : Gualtiero, interrogato sulla differenza fra la cucina italiana e quella francese, ha risposto che la nostra è sovrapponibile a quella giapponese, la francese a quella cinese.
Se ci pensate è vero: potete mangiare il sushi, da condire al massimo con un intingolo servito a parte, con le mani mentre i piatti cinesi e francesi sono ricchi di salse e non hanno la nostra potenza di esaltare la materia prima.
Nel nostro prossimo appuntamento, tenterò di farvi entrare nei miei piatti, vi dirò come nascono e vi parlerò del Kaiseki, ramo della cucina giapponese che propone diverse consistenze nella stessa portata, come se fossero pennellate decise, precise e definitive di un acquerello».
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