Il tuo cuore potente che batte ancora è l’unico mio sorriso

La lettera d’addio del nostro giornalista Alberto Coriele, cugino di Alessandro Giani

«È questo che da sempre sogno, essere libero e andare per il mondo, visitare tutti i luoghi della terra, dalla montagna più alta alla più oscura foresta, senza usare tecnologia avanzata, mi basterebbe una bicicletta usata per pedalare, pedalare all’infinito, visto che vorrei questo come destino; un destino un po’ strano, anche vago, ma questo ho da sempre sognato. Un sogno per alcuni faticoso, o per altri molto curioso, tuttavia lo seguirò davvero perché il mio sogno è

sincero».
Sono parole sue, di Alessandro, questa è una poesia che ha composto quando frequentava la terza media. Vinse un concorso di poesia ma era talmente timido che non lo rivelò quasi a nessuno e non andò nemmeno a ritirare il premio. Sono piccole sfumature di lui. È ormai una settimana che mi vedo passare davanti agli occhi le immagini della sua prima vittoria in bicicletta, come fosse ieri, eppure di anni ne sono passati più di undici. Neanche a dirlo eravamo a Cassano Magnago, la gara di casa, era arrivato al traguardo da solo, lasciando indietro tutti gli altri. Stravolto, con le lacrime agli occhi per l’emozione e la fatica, al traguardo lo aspettavamo tutti: mamma, papà, nonni, cugini, amici. La bicicletta ed il ciclismo erano al centro di ogni nostro discorso, la Tre Valli Varesine che lui aveva visto con gli amici dalla salita del Montello, l’ultima Pedala con i Campioni a cui aveva partecipato proprio l’8 dicembre, il Giro d’Italia passato per Varese, la tappa del Tour de France che avremmo dovuto vedere assieme, il Giro delle Fiandre che guardavamo ogni volta a Pasqua, sul divano, con il Teresiano che riusciva a star sveglio giusto per i primi venti chilometri. Come cantava tuo cugino Paolo ieri in chiesa, «devi dirmi dov’è la tua casa dei fiori, è da sempre che cerco la casa dove posso tornare, devi dirmi dov’è perché voglio venire anch’io, non lasciarmi da solo».
Ale, lo so, tutto questo clamore mediatico ti avrebbe messo in difficoltà, in imbarazzo. I titoli in prima pagina li avresti voluti e sognati per una vittoria in bicicletta, una delle tue, una di quelle che mi aveva fatto realmente appassionare a questo sport, assieme a quelle di Ivan Basso, idolo comune, idolo di sempre, di cui non ti perdevi una gara, un’intervista.
Scrivere queste righe, per me, è terribile ma quasi terapeutico, anche se non avrei mai e poi mai voluto farlo. Può forse esistere un articolo peggiore di questo? Alzo lo sguardo dalla mia scrivania e scorro sul muro le foto della mia laurea, sei lì in mezzo ai miei amici e mi chiedo per quale maledetto motivo qualcuno abbia deciso che tu una soddisfazione del genere non possa viverla mai. No, non c’è giustizia in tutto questo.
L’unico sorriso di questi giorni senza senso ci viene regalato dal fatto che qualcuno, grazie a quel tuo cuore infaticabile e potente, potrà vivere. Giovanni capirà davvero il dono che ha avuto. L’altra sera, alla fine del Rosario in chiesa, osservavo i tuoi amici di una vita montare in sella e andare via. Ti cercavo con lo sguardo, perché di solito era lì che ti avrei trovato. Ho ricordato con Simone, avversario per strada ma tuo amico nella vita da sempre, la seconda gara che hai corso e vinto a Cassano. Eravate rimasti in due, lui era davanti ma sentiva la gente che gridava il tuo nome, e non capiva perché. Lo hai superato negli ultimi metri vincendo anche quella, e lui se lo ricorda ancora con un sorriso stupendo. Potrei scrivere un giornale intero di ricordi, ma tu eri di poche parole.
Ti saluto con una poesia di John Donne, Ale: «Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della terra. Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, la terra ne è diminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto, o una magione amica o la tua stessa casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».