Il “cantiere Liuc” alla sfida dell’internazionalizzazione. La parola d’ordine dell’inaugurazione del nuovo Anno accademico, tenutasi ieri mattina di fronte alle autorità politiche e militari, ai sindaci del territorio e agli imprenditori, è «rinnovamento».
«Formulare e realizzare l’idea di sviluppo di un’istituzione universitaria, è doveroso – sottolinea il rettore – Significa lavorare su interrogativi di portata strategica e chiedersi quali sono le grandi direttrici di cambiamento del mercato del lavoro; come indirizzare e ottimizzare gli investimenti in ricerca; cosa vuole dire internazionalizzare la formazione universitaria. Significa avere una visione, pensare in grande, essere ambiziosi, cambiare paradigma».
È qui che si poggia «il “cantiere” Liuc», come lo definisce Visconti. Perché quella dell’università Cattaneo «è una storia di buon senso, di spirito critico, di apertura al nuovo, di pragmatismo, di assunzione di responsabilità. Guardandoci intorno e pensando alla situazione italiana, non ci dovrebbe essere spazio per i luoghi comuni, le difese dei territori, le paralysis by analysis, le liturgie e le miopie, la palude del “Si è sempre fatto così!”».
Così la Liuc raccoglie la sfida: «Come istituzione universitaria – fa notare il rettore – non può guardare indietro e non può stare alla finestra. Deve tirare diritto, innovando, investendo, puntando ai fatti. Con tanto buon senso, sfidando il senso comune». Internazionalizzare è una sfida coerente con quell’essere “ateneo delle imprese” che è nel Dna della Liuc. «Pensare internazionale – sottolinea il presidente – è un bisogno che nasce dalle radici del fare impresa della nostra comunità. I numeri statistici della provincia di Varese testimoniano la nostra grande predisposizione ad andare al di là dei confini».
Ma sul fronte dell’internazionalizzazione, «vocabolo di successo e vero e proprio oggetto del desiderio degli atenei italiani», il delegato alla partita in Conferenza dei Rettori, il rettore dell’Università di Pavia , descrive una situazione zeppa di «limiti e criticità». Solo il 4,62% di studenti stranieri dei nostri atenei, appena l’1% circa di professori di ruolo stranieri, numeri lontani da quelli di Francia e Germania. E ancora, «una compulsione tassonomica» dei corsi di studio che allontana gli studenti stranieri e un’eccessiva «frammentazione» della promozione all’estero del sistema.
Servirebbero «più corsi in lingua inglese», «più flessibilità retributiva» per attrarre docenti dall’estero, «meno rigidità» nell’organizzazione dei corsi. Un quadro con «più che ombre che luci» ammette Rugge, che però intravede «opportunità straordinarie» legate alle potenzialità del sistema Italia: «Se mettiamo alle spalle remore e autolesionismi, ci sono praterie da percorrere. Cooperando a livello lombardo nell’orizzonte globale».
Qualche suggerimento, su come internazionalizzare, lo fornisce il “dean” dello Iéseg School of Management Jean-. «L’internazionalizzazione – spiega – è centrale perché in un’economia globale le organizzazioni fanno sì che gli individui interagiscano con individui di altri Paesi». Ma le ricadute positive si ribaltano anche sul territorio: «In presenza di un contesto intellettualmente elevato grazie alle istituzioni universitarie – aggiunge – le aree locali diventano ancora più attrattive per l’insediamento imprenditoriale».
In una parola, un fattore di competitività. Ecco che però il presidente della Liuc Graglia rivolge «una raccomandazione: che questa forte ed ineludibile spinta verso l’estero, verso tutto ciò che è internazionale, non sia motivo di fuga dalle nostre radici. È compito dei giovani essere testimoni orgogliosi in futuro delle fondamenta su cui siamo cresciuti, ovunque vivano le loro esperienze».