La storia di Johnbosco venuto dalla Nigeria: un vero profugo fuggito dai terroristi islamici di Boko Haram. Lo Stato italiano non gli ha riconosciuto lo status di rifugiato ma lui non ha protestato: si è rimboccato le maniche e ha cercato un lavoro. L’ha anche trovato, in provincia di Varese, e ora sta cercando una sistemazione. «In Nigeria non posso più tornare – dice – i terroristi hanno già ucciso mio papà e mio zio e vogliono cancellare tutti i cristiani. Voglio farmi una famiglia qui».
Si chiama Johnbosco (omettiamo il cognome), che in inglese significa “Giovanni Bosco”, un Santo molto popolare in Africa. «Mi hanno chiamato così perché mio padre era molto amico di un prete salesiano». Quando gli si chiede che cosa preferisce dell’Italia, a Johnbosco si illumina il sorriso: «Mangio praticamente ogni cosa» dice con gli occhi di chi è innamorato di questo Paese che lo sta accogliendo e che per lui significa salvezza da uno scenario di guerra e sopravvivenza.
Qui Johnbosco ha conosciuto una ragazza, anche lei nigeriana, in Italia regolarmente con la famiglia che vive nella città dove era ospitato nel centro di accoglienza, e da lei aspetta un bambino: «È incinta di 6 mesi» racconta. «Il mio futuro? È qui in Italia, voglio trovare un lavoro, stabilirmi, crescere dei figli». Ma la storia che lo ha portato qui, che inizia nel 2012, quando era un ragazzo che voleva andare all’università, è di quelle che aprono il cuore e che sfida la scorza più dura di chi è ostile rispetto all’immigrazione.
«Mio padre era un imprenditore, specializzato nella vendita di pesce. Con lui, mia madre e il mio fratello minore vivevamo nella parte orientale della Nigeria, la regione Igbo, quella con la maggior presenza di cristiani – racconta l’uomo – quel giorno andò come tutti i giorni a fare il suo lavoro, ma il mercato fu attaccato dai terroristi di Boko Haram. Ci furono più di cento persone uccise. Usano gli attentati per intimidire i cristiani». A quel punto Johnbosco è costretto a trasferirsi dallo zio, nel nord della Nigeria, per fare qualche lavoretto. Arrivato il venerdì, la domenica accompagna lo zio e la zia con i loro due bambini a Messa: «Ero uscito per comprare biscotti e bibite per i bambini – racconta Johnbosco – in quel momento ci fu un’esplosione in chiesa. C’erano dentro più di 500 persone. I sopravvissuti, come me, cominciarono a fuggire, per paura di essere presi dai terroristi. Così mi trovai con un gruppo di persone a correre, per 50 chilometri, fino ad oltrepassare il confine con il Niger, dove ci accampammo in un palazzo disabitato».
Il Niger è un altro Paese in cui il terrorismo islamico è presente, così Johnbosco e gli improvvisati compagni di viaggio scappano ancora: «Nel deserto, senza bagagli, senza niente – prosegue il racconto – saltammo di nascosto su un camion. Era diretto in Libia, quattro giorni di viaggio stipati tra le merci». Era la Libia del dopo-Gheddafi, altro posto non propriamente tranquillo. «I libici, che sono di carnagione chiara, stavano facendo pulizia etnica nei confronti dei neri – fa sapere Johnbosco – scesi dal camion, ci fu una colluttazione. Quattro dei miei compagni di viaggio furono uccisi, gli altri portati in prigione. Ci sono rimasto per due anni, fino a quando uno degli addetti della prigione, a cui avevo dato una mano facendo piccoli lavori, mi aiutò ad uscire di prigione. Una sera mi chiese di salire in macchina e mi portò via con lui. Prima nella fattoria della sua famiglia, nascosto nelle stalle, dove mangiavo e bevevo quello che davano agli animali. Poi sulla costa». Johnbosco si trovò sulla spiaggia, in mezzo ad un centinaio di persone, tutte in attesa di affrontare il viaggio della speranza nel Mediterraneo. «Mi ritrovai su un grosso gommone, seduto insieme a 107 persone – racconta – il libico mi salutò dicendomi “buona fortuna e abbi una vita migliore”. Grazie a lui ero riuscito a salire senza pagare, mentre qualcuno per il suo posto aveva dovuto pagare l’equivalente di circa 500 dollari. Dopo tre giorni in mare senza mangiare né bere, fummo salvati dalla Guardia costiera e portati in Sicilia». È il giugno 2015: nel campo profughi non c’è posto, così Johnbosco viene messo su un pullman e portato in Lombardia, dove viene accolto in un centro dove alloggia con una trentina di richiedenti asilo. In questi due anni non sta con le mani in mano: viene impiegato per piccoli lavori di pulizia in un Comune ma anche per quattro mesi come volontario dalla Croce Rossa.
Nel frattempo l’iter della commissione che valuta gli status dei richiedenti asilo si compie: «La prima volta, esito negativo. La seconda volta, ancora esito negativo. Significa cessazione dell’accoglienza, quindi devo lasciare il centro – racconta Johnbosco – l’avvocato dice che non sono considerato un profugo di guerra. Dopo l’attentato in cui morì mio zio, avrei dovuto tornare a casa, da mia madre e da mio fratello, che però nel frattempo sono scappati anche loro da casa, e vivono in Ghana insieme ad altre famiglie nigeriane». La battaglia per il riconoscimento come rifugiato continua: «La prima cosa che feci quel giorno fu scappare il più in fretta possibile, se avessi provato a tornare a casa mi avrebbero ammazzato. La Nigeria è un Paese ricco, di minerali e oro, ma di fatto c’è una guerra civile e i diritti umani non vengono rispettati, perché Boko Haram è ovunque». Perché in Nigeria Johnbosco ha visto il volto peggiore del terrorismo islamico: «Dopo il caso delle studentesse rapite da Boko Haram, che aveva mobilitato la comunità internazionale, tutti si sono dimenticati di noi. È un problema che diventerà sempre più difficile da affrontare, perché i terroristi educano i bambini a diventare attentatori suicidi. Vogliono un’unica religione islamica, così i cristiani stanno scappando via tutti dalla Nigeria. Vedrete che anche in Europa sarà sempre più un problema».
Eppure, nonostante il diniego dell’asilo politico, Johnbosco non protesta: va in Comune a chiedere documenti e assistenza, e tramite un amico italiano conosciuto in Chiesa riesce a procurarsi un colloquio per lavorare in un supermercato della provincia di Varese: «Mi hanno proposto di iniziare a lavorare a metà agosto, a patto che riesca a trovare una sistemazione in zona, per poter essere reperibile per i turni». Sarebbe un primo segnale di rinascita: «Io sto solo cercando di fare la vita che facevo prima in Nigeria – rivela Johnbosco – la mia famiglia non è ricca, ma ce la caviamo. Sono qui per ricostruirmi una vita: cerco di essere gentile con tutti, non sono mai andato a fare elemosina ai supermercati. Non tutti i migranti si comportano così, non tutti vanno a scuola di italiano come invece ho fatto io». Cosa ne pensa Johnbosco dell’ostilità crescente verso i migranti? «È un fatto individuale – risponde, e fa un esempio – il giorno che sono arrivato nel centro di accoglienza, un ragazzo musulmano ha iniziato a picchiare me e altri perché stavamo recitando una preghiera cristiana. Gli ho risposto che questo è un Paese cristiano, e non può impedirci di pregare».