La condanna di Berlusconi riapre, anziché chiudere, il pesante capitolo della legalità costituzionale in Italia e, conseguentemente, alimenta i dubbi sull’opportunità e sulla sostenibilità, con le forze politiche di questa maggioranza, di un processo di revisione costituzionale come quello avviato.
Il discorso-sfogo di Berlusconi rilancia il refrain del disegno eversivo di parte della magistratura, trasformatasi in abusivo potere dello Stato. Si lamenta, come se fosse un’anomalia, che organi non elettivi come i magistrati si permettano
di giudicare un eletto, condizionando in questo modo la vita politica. La Costituzione prevede che la magistratura costituisca un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere; prevede anche che la giustizia sia amministrata in nome del popolo. Si affermano pertanto insieme indipendenza della magistratura ed esercizio della giustizia in nome del popolo. Fra le due affermazioni c’è contraddizione? Se la magistratura deve perseguire la giustizia in nome del popolo non dovrebbe essere a servizio del volere politico legittimato dalla maggioranza? Il discorso di Berlusconi sembra prendere questa posizione.
In realtà, il pensiero politico autenticamente liberale da secoli ormai non ha imbarazzi sul punto: solo se indipendente, infatti, una magistratura può, secondo eguaglianza e senza condizionamenti, garantire il rispetto della legge anche in caso di violazione della stessa provenienti da uomini o da organizzazioni potenti (pubbliche o private). Sembra quasi che si debba tornare a fondare questa elementare connessione. Certo, la magistratura non è autonoma nel senso che possa “fare” la legge. La Costituzione afferma che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Compito del giudice è interpretare e applicare al caso concreto la volontà, espressa nella legge, che organi diversi, democraticamente legittimati, hanno elaborato. Però attenzione: il giudice è soggetto alla legge, ma soltanto alla legge. La linea di soggezione è tra i giudici e la manifestazione della volontà che si traduce nella legge, non tra centri di potere (tra giudici e Parlamento o peggio tra giudici e uomini di governo). L’indipendenza si traduce allora nel fatto che la magistratura debba svolgere la sua attività di interpretazione e di applicazione della legge senza paura di subire condizionamenti o interferenze da parte di altri poteri. Da questo punto di vista, la competenza tecnica, accertata dall’accesso mediante concorso, è una garanzia soprattutto per il cittadino.
E poi: il popolo, cui la Costituzione attribuisce la sovranità, è un soggetto intrinsecamente e irriducibilmente plurale (articolato in formazioni sociali, istituzioni territoriali, minoranze linguistiche, confessioni religiose diverse, ecc …). In questo contesto, proprio il principio della separazione dei poteri e la conseguente indipendenza della magistratura divengono la garanzia fondamentale della sovranità del popolo plurale, perché precludono a qualsiasi maggioranza (e, a maggior ragione, a qualsiasi leader) la tentazione – sempre ricorrente – di auto-identificarsi con il popolo e di pretendere di esaurire dentro di sé la totalità delle sue differenti espressioni.
Si potrebbe forse obiettare a queste riflessioni che il video di Berlusconi deve essere considerato come il comprensibile – e forse perfino giustificabile – sfogo di un uomo, peraltro assai potente, che si vede limitata la libertà personale. Ciò è umanamente vero e andrebbe seriamente considerato, se non fosse che il condannato in questione è il leader di uno dei due principali partiti che sostengono il Governo in carica; e se non fosse che questo sfogo trova compatto – e, anzi, ansioso di mostrare un’esibita unità – un intero partito, che rappresenta un terzo degli elettori. Un partito in cui non mancherebbero certo voci più equilibrate, che appaiono però come inibite, obbligate a esibire una militante solidarietà con il padre-padrone del partito. Si conferma insomma che quello di Berlusconi non è un partito, riconducibile a una qualche tradizione o visione ideale collocabile nell’universo delle destre europee (tanto meno quella liberale); si tratta piuttosto di un apparato di sostegno a un capo (e domani, forse, a sua figlia…) che tende a identificare i suoi problemi personali con quelli della Repubblica. È chiaro, a mio avviso, che, con un centrodestra di questo tipo, non sono possibili compromessi costituenti. L’idea della pacificazione è subito slittata in un’ambigua aspettativa di impunità. La mediazione, perché non scada a mercato, esige il confronto tra forze che condividano una grammatica del bene comune, un senso delle istituzioni. Per queste ragioni, risulta quanto meno intempestivo anche il comunicato del Presidente della Repubblica che, il giorno stesso della condanna definitiva, si affrettava ad aprire a una riforma della giustizia dalle prospettive non certo rassicuranti… Non vorremmo che la si leggesse come la ricerca del salvacondotto per il potente evasore.
Filippo Pizzolato
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