Dunque, Frank Vitucci. E no, state buoni: non è la voglia vigliacca di rivangare il passato oggi che le cose vanno male. Figuratevi che in quest’intervista di Pozzecco nemmeno si parlerà. Dunque, Frank Vitucci: perché lui era l’allenatore degli indimenticabili, certo, ma soprattutto perché lui è un veneziano trapiantato in Irpinia.
E c’entra, c’entra eccome: perché sabato scorso il Varese ha giocato ad Avellino, nel giorno in cui ricorreva l’anniversario del terremoto del 1980. I tifosi del Lupi a un certo punto hanno tirato su uno striscione enorme a ricordare quei 2914 morti,
e tutto lo stadio è esploso: “Irpinia, Irpinia, Irpinia». Pelle d’oca, ragazzi: pelle d’oca vera.
Abbiamo aspettato un giorno, poi due, poi tre. Spulciando i giornali nazionali per vedere se qualcuno si fosse preso la briga di parlarne, di raccontarlo, di dirlo. Invece, no: quel grido “Irpinia-Irpinia” è caduto nel vuoto, fagocitato, andato perso.
Allora, abbiamo deciso di parlarne noi: facendoci raccontare l’eccezionalità di quella gente da Frank Vitucci. Perché lui la conosce bene e perché lui, ora possiamo fare outing, è un nostro amico.
«Voi – ci dice – vi siete stupiti per quel coro: io invece me l’aspettavo. Questa gente è legata a filo doppio con la sua terra, Avellino non è solo una città: è un modo d’essere, un’identità. I motivi sono storici e geografici insieme: questa non è un’isola ma è come se lo fosse. Ad Avellino non ci vai per caso, non ci passi per andare da qualche altra parte: ci vai solo se ci vuoi andare per davvero. Avellino non ha una periferia, ma è tutto città: tutto centro. Provate ad andare in macchina da Roma a Napoli: non capite dove finisce una città e dove inizia l’altra, è un’eterna periferia. Avellino, no: quando ci entri, entri nel cuore. Questa città è una cosa a parte: non è Napoli, per carità, non ditelo nemmeno per scherzo che qui si offendono».
L’Irpinia e il terremoto: a distanza di 34 anni, è come se fosse successo ieri sera. Perché. «Io credo che l’espressione “ferita aperta” si adatti alla perfezione a questa terra dilaniata da quella tragedia. Il terremoto era e resta una ferita aperta dal punto di vista sociale, fisico, geografico, mentale. I segni della devastazione sono ancora tutti lì, da vedere e da toccare: il tempo si è fermato. Terremoto qui significa il boato delle 19.34 di quel 23 novembre, i paesi cancellati, i morti tirati fuori con le mani dalle macerie, i soccorsi che non arrivavano. Ma significa anche una ricostruzione mai realmente avvenuta, un “modello Friuli” rimasto solo nelle intenzioni. Significa una pagina ancora aperto: un commissario straordinario nominato nell’emergenza e ancora attivo, un’accisa sulla benzina di 75 che stiamo ancora pagando. Una ferita ancora aperta, apertissima. Quel coro che avete sentito venire giù dal Partenio era cantato da ragazzi che nel 1980 non erano nati: ma il terremoto lo vivono comunque, tutti i giorni».
Com’è la gente dell’Irpinia? «Qui si sta bene. Uno che non la conosce guarda da fuori e vede che non è il posto più bello dove vivere. Ma se poi si prende la briga di entrarci, di toccare, di parlare allora cambia tutto. Ed è un po’ quel che dicevo prima, quando parlavo del fatto che qui non ci si arriva per caso. L’ospitalità meravigliosa che caratterizza questa gente può essere spiegata proprio così: loro apprezzano chi ha voglia di andare oltre, di arrivare fino in fondo. Questa è gente di montagna, e io ci vado d’accordissimo, per forza. Ci vuole curiosità per entrare nel cuore degli irpini, ma poi in quel cuore ci resti».
Ecco, però un po’ di basket bisogna parlare: siamo sulla pagina della pallacanestro, non è che possiamo parlare solo di altre cose.
«Il campionato sta facendo quello che ci si aspettava da lui: esattamente quello. Ci sono quattro o cinque squadre che stanno scappando via, altre due o tre che sono rimaste indietro. E poi c’è il gruppone che sgomita: dentro c’è la mia Avellino, ma c’è anche Varese. Noi abbiamo avuto un calendario terribile, abbiamo incontrato tutte le più forti: adesso possiamo guardare avanti un po’ più sereni». E Varese? «Credo sia una buona squadra: l’assenza di Kangur è pesante e si fa sentire, ma Eyenga può dare una bella mano. Là dietro, nel gruppone, l’equilibrio è davvero tanto. Ci sarà da divertirsi, insomma».
Cosa sono quegli sguardi? No, di Pozzecco non parliamo: non con Vitucci, perché non sarebbe giusto.