Un giornale con l’anima che arriva dal basso

L’editoriale di Andrea Confalonieri, nuovo direttore de La Provincia di Varese

Siamo pirati, magari li vedi ma non li acchiappi. Siamo quelli che in un bigliettino del falò di Sant’Antonio hanno scritto quattro parole, un desiderio: “La Provincia di Varese”. Non siamo diplomatici né casta, più demoni che finti angeli: non amiamo i compromessi, non scegliamo i soldi ma la borsa nera e le scarpe da ginnastica di Papa Francesco. Gli “altri” siamo noi.

Siamo qui non perché abbiamo cercato interviste e notizie esclusive (di solito è l’intervistato che cerca il giornalista amico perché scriva esattamente quello che lui vuole).
Siamo qui perché la lavandaia dello stadio con una famiglia da mantenere e pochi euro in tasca, ne spendeva comunque uno per comprare un giornale dove trovava, tra le macchie di erba sui calzettoni e i pantaloncini sporchi di fango, lo spirito guerriero (l’anima) di una squadretta così unita,

pura e dura da diventare, per lei, uno squadrone grande come una famiglia.
Siamo qui perché puoi nascere e vivere su una carrozzina come Alfredo Luini (in foto) ma riempire comunque le pagine di un giornale e insegnare a sorridere a tanti morti in piedi.
Siamo qui per “merito” di questo pregiudizio: lo sport è soltanto sport, una partita del Varese è solo una partita del Varese da lasciare a fondo pagina, e invece se la metti in cima, dove spesso non c’è nulla, diventa una partita per tutti, e la squadra di tutti. Se credi in un piccolo sogno, anche nei dilettanti, e ci credi così tanto da trascinare il cielo (gli altri) dalla tua parte, arrivi in serie A.
Siamo qui perché i disabili di Roberto Bof e i bambini della scuola calcio di Marco Caccianiga – tutti i disabili e tutti i bambini – non meritano meno spazio degli assessori della giunta lombarda di Roberto Maroni (e lo sa anche Maroni), e siamo qui perché maestri come questi non debbano più predicare nel deserto, ma dalle pagine di un quotidiano (o, magari, di un Palazzo), per dare a tutti un po’ della loro “ricchezza”, che magari non ti migliora la vita ma ti fa sentire migliore.
Siamo qui perché una parola, anche solo una parola in un titolo o una piccola fotografia possano strapparvi ancora un sorriso, una lacrima, un pensiero, un sogno, una stizza, una rabbia. E siamo qui per farci dire cosa volete, non per insegnarvelo, in ogni momento, come e quando volete: con un clic, un tweet, un messaggio ma perfino con un piccione viaggiatore spedito al nostro indirizzo.
Siamo qui perché un semplice foglio di carta può abbattere ancora un muro al soffio di un’idea, e l’idea può essere racchiusa anche in una semplice immagine, in una battuta, in un gesto dolce o amaro, in una giornata di neve o nel vento.
Siamo qui perché è bello avere amici veri ma soprattutto grandi nemici, i primi restano ma i secondi si (ti) ricordano per sempre.
Siamo qui per dire quello che pensate, anche quando è scomodo come quello che adesso in molti stanno pensando, e cioè questo: caro fratello di Greta, si può mostrare rispetto e dignità anche nella sofferenza (no, non “sono affari dello stato italiano” quelli di aver eventualmente pagato un riscatto da 12 milioni, come hai detto tu, ma sono affari tuoi, nostri e di tutti). Possiamo ancora chiederci “libere, a che prezzo?”, magari sentendoci rispondere “a qualunque prezzo”, senza farci schiacciare dall’ipocrisia della retorica patriottica e buonista.
Siamo qui per dirci, dirvi e farvi dire le cose in faccia senza alcun velo e per chiedere a Pietro Vavassori, imprenditore e patron della Pro Patria, cosa ne pensa lui di tutta questa storia, lui che ha visto un pezzo della sua vita morire durante i 266 giorni in cui la moglie Alessandra Sgarella è rimasta prigioniera di un buco in Aspromonte, segnata per sempre ma orgogliosa e più viva e forte che mai: caro Pietro, la libertà ha un prezzo, e se c’è, qual è?
Siamo qui per domandare a Eleonora Rosati, al novantesimo giorno di carcere di una partita che non finisce mai, cosa dirà ai suoi due figli piccoli che non vedono il padre Antonio da tre mesi: dove è papà?
Siamo qui per dare voce a una malata di Sla come quella incontrata da un gruppo di tifosi bustocchi in Sardegna: «Ho un filino di Sla», così li ha accolti aggiungendo che «il valore del tempo non si misura da quante cose facciamo. Pensate che per me il tempo è veder crescere una pianta. Vederla sbocciare e poi fiorire, un po’ per volta».
Siamo qui per dare vita a un cipresso, a un foglio pieno di firme chiunque lo riempia, a un tavolino di un bar contro chi vuole levargliela per sempre così come a un aeroporto che ci porta a casa il mondo (la nostra gente a Malpensa vuole bene, perché gli facciamo male?).
Siamo qui per farvi credere che esiste – forse perché esiste davvero – una città, una provincia, un mondo e persone migliori di quanto abbiate mai creduto. A volte bastano poche parole, come queste: «Io che ho un figlio autistico voglio dirvi che questi bambini sono meravigliosi. Anche se stanno in disparte o non ti guardano negli occhi non sono pericolosi e non vanno nascosti ma accettati e amati» (Buba Buzzegoli, ex calciatore che ha riportato il Varese in serie B).

Dicono che lo sport è soltanto sport e chi ne scrive può fare solo quello. Invece ti insegna a vivere tutto al massimo, come un’ultima partita o un’ultima salita. Se non corri e se non scatti, sei morto.