Ogni cosa è al suo posto. Ovvero in quel che deve regnare per definizione in una casa con quattro bambini. non c’è: è al campo di mirtilli dove un gruppo di ragazzi down sta ultimando il raccolto di stagione. è a casa circondato dai suoi figli: piange, gioca, dà una mano a controllarli, è fuori. E questo, per chi conosce , non è uno scenario normale. Non lo è per chi è abituato a gestire le sue trasferte, le giornate scandite dagli allenamenti, i mesi lontano da casa. Succede così,: una settimana fa la scoperta di un tumore, il ritiro precipitoso dal , l’operazione, la paura. Una vita cambiata così, da un momento all’altro.
Il Tour stava andando bene. A differenza di quanto successo al Giro mi stavo piacendo, mi sentivo gratificato, sentivo che stavo riuscendo a fare il mio lavoro. Poi, quella caduta.
Una caduta banale, nemmeno un graffio. Un piede è rimasto attaccato al pedale e un testicolo si è schiacciato sulla sella. Succede, succede eccome, sarà capitato decine di volte: fa male, parecchio. Ma poi passa.
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Macché. Il dolore non se ne andava, e il giorno della crono a squadre è stato il peggiore: un male bestiale, anche perché la posizione sulla bici da cronometro è devastante. Eppure abbiamo macinato, l’abbiamo fatta a 50 di media: nonostante il male.
La sera della crono ero devastato: mi hanno portato alla clinica mobile per un’ecografia. Il medico non ha detto una parola: ma la faccia che ha fatto, diceva tutto. In quel momento ho capito che qualcosa non andava. Sono tornato comunque in albergo: la mattina dopo alle 9 mi stavo preparando, convinto che da lì a un paio d’ore sarei salito in bici.
No. Il medico è venuto a prendermi in camera e mi ha detto che sarei andato all’ospedale di Pau, dove c’è un reparto d’urologia di primo piano. Per un controllo, mi dicevano. Però appena arrivato lì mi hanno fatto una tac con il liquido di contrasto. E allora ho capito per davvero: ho capito che la cosa era seria. Non si fa una tac per un testicolo schiacciato.
Nella mia testa ha iniziato a rimbalzare quando ho visto che mi facevano la tac. Poi, è stato il medico a dirmelo. In un francese italianizzato, senza giri di parole: «Questo è un tumore, e credo maligno».
Poi quel medico ha aggiunto una frase del tipo «se dovessi scegliere un tumore da farmi venire, sceglierei un tumore ai testicoli».
Per venti minuti, sì: da quando sono uscito dalla tac, a quando ho sentito le parole più belle di tutte.
Non ci sono metastasi.
Ora cosa dico a casa?
No. Se in quei minuti avessi pensato alla bicicletta sarei stato un pazzo irresponsabile, mi sarei vergognato di me.
Ho chiamato Micaela e le ho raccontato tutto. Lei è tosta e mi ha ascoltato in silenzio, poi ha sussurrato: «Sistemiamo anche questa». Subito dopo ho radunato i compagni di squadra e lo staff, perché avevano il diritto di sapere. Poi la conferenza stampa, che spiegava al mondo la mia disavventura.
Se non sei un medico, quando ti capita qualcosa di brutto, puoi soltanto scegliere di sorridere e fare il pieno di ottimismo. Per convincere te stesso che andrà tutto bene, ma anche per consolare chi ti sta attorno. Perché, sembra paradossale, ma quando uno sta male poi si ritrova subito a tirare su di morale gli altri che soffrono per lui.
Con un cartellone meraviglioso che mi aspettava al ritorno a casa. Domitilla, la più grande, si è subito documentata: voleva capire, voleva sapere. Perché la parola cancro, inevitabilmente, si associa al rischio di morire.
In quei venti minuti dopo la tac ho avuto paura. Poi ho capito che avevo due priorità: guarire, e guarire.
Il professor Montorsi ha trattato il paziente Ivan Basso esattamente come avrebbe trattato, e tratta, qualsiasi altro paziente. E io lo ringrazio per questo, prima che per l’operazione.
Un luminare amato e rispettato da tutti, che lavora dalle 7 del mattino fino alla sera. Ogni giorno alle 7.30 è in reparto a parlare con i suoi pazienti, tratta chiunque con un’umanità che guarisce quasi come il suo bisturi.
No, mai: anche se sono finito sui giornali di tutto il mondo. Perché a finire sotto i riflettori non è stato solo Ivan Basso, ma anche la mia malattia. Ed è una malattia di cui bisogna parlare, perché la diagnosi precoce salva le vite. E io farò di tutto perché se ne parli il più possibile: non farò associazioni perché ce ne sono fin troppe, non farò proclami. Ma ne parlerò in ogni modo, porterò la mia testimonianza.
Sì. Noi ciclisti ci scanniamo per un metro in più, ci prendiamo a spallate a sessanta all’ora, litighiamo. Ma quando qualcuno di noi ha bisogno, siamo una famiglia.
Ne ho ricevuti tanti. Molti si sono schierati pubblicamente, molti lo hanno fatto privatamente: tra loro, anche degli avversari insospettabili. Tanti altri mi hanno scritto messaggi profondi, altri scherzosi. Altri non hanno scritto nulla ma mi sono stati vicino in silenzio. Io ringrazio tutti.
Adesso, per un mese, mi riposo. Non mi capitava da anni un periodo così lungo senza pedalare.
Una profonda riflessione, dentro di me, era già in atto da tempo. Da prima del Tour, da prima di tutto questo. Cercherò di usare questa disavventura e quel che si porterà dietro per capire ancora meglio quello che sento, quello che voglio.
La bici farà parte di me, per sempre: questa è l’unica certezza. Sto maturando delle scelte, che confronterò con le persone che mi stanno più vicino: perché non voglio che il troppo amore per il ciclismo mi tradisca, facendomi prendere una decisione sbagliata o affrettata.
Facile: in salita controvento.