Caro Marco Pantani, avevi ragione tu: non eri il bene o il male del mondo ma solo un omino ricurvo su un manubrio, tutto pelle e ossa, che saliva con le sue gambe verso una montagna. Eri un pelato senza la faccia da campione ma con un cuore grande come l’Izoard. Eri solo un ciclista. Il migliore. Avevi ragione tu perché quelle migliaia di bambini che piangevano al tuo funerale adesso sono diventati molto più grandi dei “grandi”
che ti schifavano nel 2004 e si ritrovano davanti al vecchio chiosco di mamma Tonina sotto la pineta per inforcare la bici, stringersi la bandana sulla fronte e partire all’avventura, tra canali e strade bianche. Poi, dopo essersi svestiti poco a poco di tutto fino a restare pelati, fanno a gara per arrivare primi al tuo monumento. Perché Pantani è rito, traguardo e desiderio.Avevi ragione quando dicevi: il ciclismo mi mancherà, ma mancherò più io al ciclismo. E avevi ragione anche nelle ultime notti di vita, quando dormivi sempre sul divano, come un gatto o come un cane, perché il letto avrebbe dovuto restare immacolato finché non avessi potuto tornarci insieme a lei, il tuo angelo (demone). Anche noi, Marco, ogni notte del tuo compleanno e di San Valentino dormiamo sul divano, ripetendo un gesto mai apprezzato (a te pesavano le vene, non i gesti) che è l’atto d’amore più struggente e semplice per festeggiarti e ricordarti.
In te hanno sempre cercato ed esaltato le debolezze, le sconfitte e le tragedie perché non accettavano le loro (le nostre) debolezze, o forse invidiavano le tue, così immense da far comodo: quando portavi la croce, uccidevano te invece di toglierti la croce. Ti hanno ridotto in polvere (bianca) ma non hanno detto che prima di quella polvere eri stato molto di più: un cumulo di chiodi e d’ossa perché una jeep in contromano ti aveva travolto in corsa, un atleta di cristallo andato in frantumi per colpa di un gatto nero sulla discesa del Chiunzi. Di quelle tue morti non parla nessuno ma si fissano sull’ultima, solo la più lunga, quasi infinita: e così ogni anno che passa rivivi scattando sempre più forte perché il 99% di quelli che correvano con te si scopre che erano peggio di te.
Sai, Marco, che il tuo insegnamento migliore è questo: nella vita puoi sbagliare, perdere e perfino morire, lasciando però il cuore e la scia in quelli che restano. In 34 anni di vita non conta la parentesi prima del punto finale, ma il libro che la precede. E un uomo più leggero di un uccello può portare tutti quanti con sé in un punto più lontano e migliore, a fare tanta strada. A fare vento. Fiato. Scatto. Orecchino. Bandana. Orecchie. Pelata. Smorfia. Gabbiani. Canali, Pinete. Pescatori. Onde. Romagna. Neve. Fango. Cappellino. Preghiera. Gruppo. Cartelli. Vernice. Colpi. Attacchi. Istinto. Fiuto. Pietra. Ruota. Cambio. Attesa. Tristezza. Dolcezza. Solitudine. Schiaffo. Fuga. Monte. Fuoco. Spada. Tortura. Agonia. Foglietti. Fine. Prova a farci cadere da lassù un altro pelato e un’altra bandana, caro Marco. Ci vediamo dietro al prossimo tornante, dove c’è sempre qualcuno pronto a urlare al primo ciclista che passa: «Vai, Pantani».