Sbiadisce quella macchia su Varese

L’editoriale di Marco Dal Fior sul caso Macchi

Sono passati ventinove lunghi anni, ma quella ferita è ancora aperta. Era ed è una macchia che sporca la carta d’identità di Varese. Come le croci antisemite al Palazzetto o la scia di delitti delle Bestie di Satana. Il sangue di Lidia Macchi non è mai stato ripulito nei nostri ricordi. Eppure ci pareva di saperlo che dietro quel delitto non c’era il killer venuto da lontano, magari lo straniero di turno (allora erano gli albanesi –

ricordate? – a popolare gli incubi degli xenofobi nostrani) o il mostro che si aggira nel parcheggio in attesa della sua vittima. Gli atti dell’inchiesta ci consegnano un compagno di scuola, buoni studi, buona educazione, buona famiglia. Gli stessi interessi, perfino le stesse frequentazioni. Magari vittima e carnefice erano seduti uno accanto all’altra alle scuole di comunità di Cl o camminavano in fila sul sentiero seguendo il passo di don Fabio durante le vacanze sulle Dolomiti.

Perché è questo quello che ci fa veramente paura. Che il vicino di casa, di banco, di scrivania a un certo punto getti la maschera e si trasformi in un orco insaziabile. Senza segni premonitori, senza indizi che in qualche modo possano metterci in guardia. L’inchiesta, dopo un quarto di secolo di surplace senza attenuanti, da quando è migrata a Milano ha compiuto passi decisivi. Prima ha definitivamente tolto di mezzo i sospetti su Giuseppe Piccolomo, il killer delle mani mozzate. Un colpevole che in qualche modo ci avrebbe rassicurato: rientrava nello sperimentato identikit del mostro seriale e per di più era già in galera. Poi ha imboccato la pista della lettera anonima, aiutata dalla memoria visiva di una donna. E questo un po’ dà fastidio, come fosse un attestato di incapacità attribuito a chi da queste parti avrebbe dovuto indagare e non lo ha fatto o lo ha fatto in modo raffazzonato. Ci son voluti i milanesi per risolvere i gialli varesini. E senza neppure ricorrere agli strumenti fantascientifici di film e telefilm americani. Sono bastati un perito calligrafo e una perquisizione mirata, roba da Ottocento, altro che Crime Scene Investigation.

Sarà ovviamente la magistratura a dire se la vicenda è davvero conclusa o se siamo di fronte solo a un nuovo coup de théatre spiazzante. Come quando in questura ci finì un sacerdote e mezza città sbiancò di colpo non potendo credere a quello che gli investigatori, con i loro interrogatori, sembravano suggerire. Forse nessuno ci potrà mai raccontare il reale movente di quel delitto. Adesso si parla di isterismi religiosi, sesso, droga: troppi ingredienti per non risultare in qualche modo esagerati e indigesti. Il vero perché non ce lo dirà neppure l’omicida, che per tutti questi anni avrà vissuto e rivissuto quei momenti, cambiando ogni volta un particolare, un dettaglio per farsene una ragione e, alla fine, autoassolversi. Altrimenti chi dormiva la notte? Di certo dormirà meglio Varese, da oggi in poi. Quella macchia è ancora lì, ma più sbiadita. Il colpevole è ancora presunto. La prova schiacciante, quella che inchioda, o non c’è o non è stata ancora esibita. Non solo: l’accusato nega ogni addebito. Eppure ci pare che la nostra coscienza sia già più leggera. Abbiamo provato a fare giustizia. Una parte del nostro piccolo enorme debito con Lidia Macchi alla fine ci sembra di averlo pagato.