«Mi hanno deluso tante cose: il caos totale a inizio stagione, l’incompetenza tecnica di chi ha costruito la squadra, l’incapacità di correggere la rotta strada facendo».
Alberto Brambilla è uno abituato a maneggiare le parole con cura. A dosarle, con competenza e circospezione, consapevole – da fine scrittore e giornalista qual è – che la penna può ferire ben più della spada. Insomma, non è certo uno che spara nel mucchio, il professore bustocco. E allora dobbiamo riflettere bene quando ci dice senza mezzi termini che «in tanti anni di Pro Patria non avevo mai visto tanta confusione e una simile pochezza tecnica e agonistica».
Direi di sì, in questo senso: al di là dello scarso valore della squadra, è mancata fin dall’inizio una prospettiva, l’idea o la speranza che questa stagione potesse servire quantomeno come base per costruire qualcosa di buono in futuro, magari attraverso la valorizzazione di qualche giovane. Invece la rosa è stata allestita in maniera del tutto irrazionale, senza una logica, da persone che peraltro vediamo sulle tv private a criticare Allegri, Marotta, Galliani: c’è da rimanere allibiti.
Santana ha fatto bene, ma per dirla tutta, più che un giocatore con le caratteristiche dell’argentino, sarebbe servita una punta vera. Forse l’unico innesto davvero sensato è stato quello di Ferri.
Onestamente questa tendenza negativa è ormai in atto da tempo. Ricordate la finale playout col Verona nel 2008? Lo “Speroni” era per tre quarti occupato da tifosi veronesi. È innegabile che in questi anni ci sia stata un’emorragia di pubblico, e adesso anche lo zoccolo duro sta cominciando a sfaldarsi.
Beh, questa stagione è stata per certi versi umiliante se pensiamo alla storia della Pro Patria. E non mi riferisco ai tempi lontani della Serie A. Solo qualche anno fa la nostra squadra aveva sempre una logica: poi poteva vincere o perdere, ma insomma, se la giocava. Il pubblico bustocco ormai è disilluso, allo stadio siamo sempre gli stessi, ma in un contesto così i giovani come possono appassionarsi?
Ma è forse una novità? Il ceto imprenditoriale bustocco non ha mai amato la Pro Patria. Peppino Mancini non era originario di Busto. Vender non è di Busto, come non lo è Vavassori. Negli ultimi decenni gli imprenditori che hanno guidato la Pro Patria sono sempre arrivati da fuori.
Secondo me sì. Già qualche anno fa girava il detto secondo cui se un imprenditore bustocco deve investire 250 mila euro, preferisce fare il consigliere nell’Inter che aiutare la Pro Patria. Del resto, non è che negli altri sport sia molto diverso: non mi sembra che i principali investitori della Futura Volley siano bustocchi.
Ho parlato un paio di volte con la signora Testa, mi sembra una brava persona. È onesta, ama la Pro Patria, ci mette i soldi e la faccia. Il problema è che questo non basta. Lei stessa ammette onestamente di non sapere nulla di calcio a livello tecnico. Perciò è indispensabile che si affidi a una figura competente, capace e seria, peraltro non facile da trovare con tutti gli squali che ci sono in giro.
Non lo vedo bene, purtroppo, a meno che la signora Testa non venga adeguatamente supportata da due o tre soci forti. Penso ad esempio a una figura come quella di Lino Petenà, che è persona seria. Mi piacerebbe anche che tornasse la famiglia Vender, magari con una piccola quota. Un gruppo di questo tipo potrebbe far rinascere la Pro Patria, ripartendo dalle basi e dalla valorizzazione del settore giovanile.
Diciamo la verità: in questo momento la dimensione della Pro Patria è tra una buona Serie D e una Lega Pro di sofferenza. Inutile fare troppi voli con la fantasia. La città è cambiata, e con lei anche le ambizioni della Pro Patria.
Attraversa una fase di profonda trasformazione. L’epoca delle grandi ditte si è chiusa, abbiamo comunque molte piccole e medie imprese a forte componente tecnologica. Il problema è che ognuna va per la propria strada: il tessuto civile si è sfilacciato. E anche la politica, negli ultimi anni, ha contribuito più a dividere che a unire la città.
Quando leggo il vostro giornale, mi viene sempre invidia per quello che succede a Varese, dove le maggiori personalità della cultura, della politica e dell’economia si interessano concretamente alla squadra di calcio. A Busto purtroppo lo scenario è diverso: il sindaco Farioli allo stadio non lo vediamo da un anno, eppure Vavassori non c’è più. Anche la sua sola presenza avrebbe avuto un significato: la squadra cola a picco, ma noi ci siamo. Una presenza simbolica, certo, ma a volte i simboli contano più delle parole.