Tempo di buste arancioni: tempo di proiezioni e di riflessioni.
È del tutto probabile che ciascuno di noi, guardando la simulazione della propria futura pensione e trovandosi quasi inevitabilmente deluso, si chieda come fare a integrarla, come adoperarsi per far sì che la stessa possa permettere di passare una vecchiaia economicamente dignitosa.
È da anni che sentiamo parlare di “previdenza integrativa” o “complementare”, di “secondo pilastro”, quelle forme di contribuzione volontaria finalizzata, attraverso l’adesione a un fondo pensione, a integrare la pensione di base erogata dall’Inps.
Per quest’ultima con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto percentuale tra la prima annualità della pensione e l’ultimo reddito percepito si è ridotto, e continuerà a ridursi.
La Ragioneria Generale dello Stato ha calcolato che nel periodo 2010/2060 si assisterà ad una riduzione progressiva della pensione media del 12% circa. E per i lavoratori autonomi le prospettive sono addirittura peggiori.
Per questo appare importante prendere in considerazione almeno una delle tre le forme principali di pensione integrativa: il fondo di categoria, anche detto fondo chiuso o negoziale, il fondo pensione aperto e il Pip (piano individuale pensionistico).
Per rendere più conveniente questa scelta l’ultima riforma legislativa della previdenza complementare (in vigore dal 1° gennaio 2007) ha introdotto importanti incentivi tributari sia per quanto riguarda la contribuzione che la tassazione delle prestazioni erogate. Infatti:
– i contributi versati ai Fondi pensionistici complementari sono annualmente deducibili dal reddito complessivo per un importo (generalmente) non superiore a 5.164,57 euro;
– i rendimenti maturati sui capitali investiti subiscono una tassazione inferiore ai rendimenti di capitale;
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l’erogazione del montante maturato beneficia di una tassazione massima del 15% (e minima del 9%), ben inferiore alla aliquota Irpef minima attualmente in vigore (23%).
Nonostante queste facilitazioni ancora molti lavoratori dipendenti non hanno utilizzato la possibilità di chiedere alla propria azienda di destinare il Tfr che ogni mese matura a loro favore ad una forma di previdenza complementare (fondi chiusi o aperti). Probabilmente perché si ritiene che il Tfr offra maggiori garanzie e si tende ad avere più fiducia nel proprio datore di lavoro che nel sistema finanziario o perchè si ha paura di fare una scelta che, di fatto, è irreversibile (chi opta per non tenere più il Tfr in azienda non può più tornare indietro).
Ma non bisogna dimenticare che chi aderisce a un fondo pensione:
– ha diritto in ogni caso a chiedere un anticipo nei casi previsti dalla legge (spese sanitarie, ristrutturazioni edilizie, acquisto prima casa…);
– è garantito: in Italia i Fondi pensione non possono fallire (le aziende sì e l’accesso al fondo di garanzia Inps a volte comporta mesi e mesi di attesa);
– non può decidere di abbandonare la previdenza complementare, ma può comunque cambiare Fondo;
– particolarmente importante poi è il fatto di godere di un’aliquota fiscale al momento del riscatto o dell’erogazione pensionistica decisamente inferiore a quella applicabile al Tfr erogato dal datore di lavoro.
Il lavoratore che matura il diritto alla pensione e si dimette riceve il Tfr mantenuto in azienda con una tassazione Irpef sull’ammontare maturato in tutti gli anni di lavoro pari alla media dell’aliquota Irpef che il lavoratore ha pagato negli ultimi 5 anni di lavoro (con aliquote dal 23% al 40% circa, in base al reddito effettivo).
Lo stesso lavoratore che avesse optato per il versamento del Tfr ad un fondo pensionistico integrativo, si vedrebbe applicata invece (a prescindere dal reddito) un’aliquota del 15%, ridotta dello 0,30% per ogni anno successivo al 15° (con 35 anni di versamenti si arriva pertanto ad una tassazione del 9%).
Un giovane che da subito opta per la destinazione del proprio Tfr ad un fondo di pensione integrativo avrà pertanto diritto, una volta maturato il diritto alla pensione, ad una rendita collegata a un capitale maggiore (di non meno del 14%) rispetto a chi avesse deciso di mantenerlo in azienda. Della medesima tassazione godono i Pip (piani individuali pensionistici).