«Adesso mi auguro si arrivi presto al processo. Che spero vada come deve andare.» Tina Piccolomo, con la sorella Cinzia, parla della battaglia condotta negli ultimi anni per chiedere verità sulla morte della madre, Marisa Maldera, prima moglie di Giuseppe Piccolomo, il killer delle mani mozzate già condannato con sentenza definitiva all’ergastolo per quell’omicidio, considerato dalle figlie «il mostro che ha ucciso nostra madre.» La svolta avvenne tre anni fa. Tina, con la sorella, incontrò il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda all’Appello
di Piccolomo. A lei le due ragazze confessarono la loro convinzione. Marisa, morta nel febbraio 2003 in uno stranissimo incidente avvenuto a Caravate (fu arsa viva mentre Piccolomo alla guida dell’auto uscì illeso): «l’aveva uccisa lui. Lei è stata meravigliosa: ha voluto andare sino in fondo. E adesso siamo alla chiusura delle indagini.» Che porteranno alla richiesta di rinvio a giudizio per Piccolomo. «Per anni abbiamo avuto paura di lui – spiega Tina – ho smesso di temerlo solo quando la condanna all’ergastolo è diventata definitiva. In quel momento ho capito che non mi avrebbe più potuto fare del male.» Due anni fa il pg Manfredda ha riaperto le indagini chiuse, forse troppo frettolosamente con un patteggiamento a una pena di nove mesi per omicidio colposo, 13 anni fa. Per l’accusa Piccolomo uccise la moglie. La drogò con un mix di farmaci non meglio identificato dai test tossicologici, fermò l’auto in un prato, sparse la benzina nella macchina e appiccò l’incendio restando a guardare la moglie che moriva. «Non dimenticherò mai quando ci raccontò di aver visto la pelle di mia madre staccarsi dal viso. È un incubo che continua a perseguitarmi.» Fu tra l’altro la parte civile a suggerire che Marisa poteva essere stata drogata in modo che non riuscisse a fuggire o a ribellarsi. «Mia madre – spiega Tina – non ha mai preso un farmaco in vita sua. Le tracce trovate con i test hanno evidenziato la presenza di medicinali che non soltanto mai madre non assumeva, ma che nessun medico le aveva prescritto.» Per Tina è altrettanto chiaro il movente. «Quell’uomo aveva una relazione con la giovane lavapiatti marocchina che lavorava nel nostro ristorante. Ne avevamo parlato anche con mamma, ma lei delle persone ha sempre visto soltanto il meglio – spiega Tina – dopo la morte di mia madre scoprimmo l’esistenza di un’assicurazione sulla vita di cui nessuno, tranne quell’uomo, aveva mai saputo nulla. Pochi mesi dopo la morte di mia madre lui sposò la lavapiatti. L’ha uccisa per questo. Ne sono sempre stata convinta.» Tina non si è mai arresa. «È già in carcere, lo so – racconta – c’è già una condanna all’ergastolo. Ma lei era la mia mamma. Deve avere giustizia. Deve venire fuori la verità.» La stessa pg Manfredda aveva semplicemente commentato: «fatta salva la presunzione di innocenza per Piccolomo, ciascun morto merita giustizia.» Adesso si attende la richiesta di rinvio a giudizio per Piccolomo. I difensori avranno 20 giorni a disposizione per produrre memorie difensive. Quindi sarà il gup a decidere se mandare a giudizio oppure prosciogliere il killer delle mani mozzate da questa seconda accusa per omicidio volontario.
La procura generale ha trovato anche foto scattate poche ore dopo l’accaduto sul luogo della tragedia: per i periti le tracce lasciate dalla vettura su quel prato non sono da ricondurre a un’uscita di strada. Piccolomo ha parcheggiato e dato fuoco alla macchina. «Per lui ho soltanto poche parole – conclude Tina – ci rivediamo al processo. Mia madre era un angelo, l’ha uccisa senza alcuna pietà.»