Si sentono soltanto “grottesche” urla sulla riforma della Costituzione che il popolo italiano è chiamato a decidere per la sua approvazione (SI) o per il suo mantenimento (NO). Sì e no sono il “nominalismo secco” di una decisione le cui ragioni per molta gente non addetta ai lavori, viene offerta in termini di competizione e di scontro tra la proposta di legge governativa e una opposizione tenace ad essa. Il pensiero dominante che sta scivolando sulla testa del popolo italiano si materializza in uno scontro tra chi promuove il cambiamento della carta costituzionale e chi invece lo osteggia per conservarla.
Lotta tra Governo progressista e opposizione conservatrice e reazionaria? Vecchio schema politico che ritorna, usando le idee del tempo andato tra voto di maggioranza e voto di protesta come minoranza. La novità tra il passato e il presente in merito alla “scrittura” della nostra Costituzione – del 1947 – si fonda sulla “personalizzazione” del Primo Ministro attuale, Renzi. D’altronde non è una eccezione nel panorama politico italiano che dal 1994, ha visto l’amplificazione e la ridondanza mediatica di un “uomo solo”, ad intercettare la benevolenza delle masse. Da allora con Berlusconi e il suo stretto clan la democrazia, si è trasformata in “demo-supremazia” del Capo movimento. I vecchi partiti, costituitisi dopo la fine del fascismo, sono stati distrutti e l’egemonia politica si è modificata in una nuova sostanziale forma di liquidità sulle ceneri del vecchio sistema politico. Cosa si è modificato come metodo di lavoro dal 1947 ad oggi? Si è frantumata la dinamica di due inscindibili momenti che sono la “partecipazione” e la “trasformazione” con cui le forze politiche di allora, si sostanziavano con l’appoggio dei singoli cittadini, dei gruppi e dell’intera collettività generale. La Costituzione italiana, nasce come necessità di togliere le contrapposizioni tra stato e società. Il costituente vuole innanzitutto, sostituire un rapporto di stretta prossimità e consonanza dell’uno rispetto all’altro. Ciò si esprime in un sistema di “democrazia rappresentativa”, largamente arricchito e modulato in alcuni tratti essenziali, in modo da privilegiare la diffusione e l’immediatezza dei punti di contatto fra istituzioni e società, il concretizzarsi e l’ampliarsi delle effettive possibilità di indirizzo e di controllo del corpo sociale nei confronti delle istituzioni e di responsabilizzazione di queste nei confronti della società stessa. Nel medesimo tempo sono disposti dei meccanismi di garanzia contro possibili degenerazioni in un “senso autocratico o dittatoriale” del potere politico. Il sistema di democrazia politica rappresentativa a governo parlamentare voluto dagli allora “padri” costituenti, cui si accompagna il riconoscimento delle libertà civili e politiche, secondo i principi propri dello Stato di diritto, si apre perciò alla esigenza del radicarsi stesso delle istituzioni nella società. Ne consegue, che tutta la organizzazione del potere politico risulta essere caratterizzata nel senso di favorire lo sviluppo di processi di scelta politica dal basso verso l’alto, attraverso un moto ascendente che sale dalla componente popolare verso le istituzioni, le quali devono essere configurate in modo tale da recepire, il più largamente possibili, gli impulsi provenienti dal sistema sociale. Vale a dire, non è solo la società che deve calarsi nelle istituzioni, ma le istituzioni vengono inversamente inserite nella società come parte di questa! La Costituzione recepisce così una concezione della convivenza che oggi si denomina di “cultura civile” e che si identifica nei tre capisaldi della universalità dei valori che ordinano la convivenza, il pluralismo e la partecipazione. Fu detto dai costituzionalisti che si instaurava la democrazia come “forma politica di una trasformazione sociale”, di cui Calamandrei in una felice e notissima espressione sulla nostra Costituzione, disse che essa era “una rivoluzione promessa”.
Ma la sfida di allora è stata sostenuta? La Costituzione ha avuto successo? A distanza di anni, la risposta non può essere globalmente positiva dato che si è mantenuta la democrazia politica e si sono avuti notevoli miglioramenti nel tessuto economico e sociale del Paese. Si affacciano, tuttavia, elementi di “crisi” o di “anomalia” rispetto al modello costituzionale, che hanno portato a sbocchi in cui ancora non si può dire che né la società si è realmente calata nelle istituzioni né che le istituzioni si sono inserite appieno nella organizzazione politica, economica e sociale complessiva. Inoltre, sul piano interno occorre dire che si è generata una situazione di condizioni economiche degradate dagli eventi di integrazione europea che porta ad un potenziale di conflittualità sociale assai elevato. Anche i contrasti “ideologici” sorti dai vari movimenti politici, portano a conflitti per le forti identificazioni personalistiche che hanno la pretesa di prendere decisioni (arbitrarie) sul piano internazionale, nazionale e confessionale.
Questo rafforzarsi di segnali di maggiori difficoltà nell’equilibrio fra espressione politica della società e canalizzazione dei partiti, sta mortificando la Carta costituzionale in quanto non è più recepita come “bene comune”, ma come strumento per gli stessi partiti di utilizzarla per uscire dalle loro difficoltà circa il consenso elettorale. Se si vuole perpetuare l’immobilismo politico e ampliare la frammentazione sociale votare NO conviene. Se invece, si vuole realizzare una trasformazione con la partecipazione e la partecipazione con la trasformazione sociale dei cittadini italiani, allora è dovere votare SI.
Come scriveva Dahrendorf: «Le attività politiche hanno bisogno dei risultati delle attività creative per qualificare la direzione del mutamento. Le attività creative danno un senso e un programma. Ma esse danno anche qualcosa d’altro, la speranza, e senza speranza non c’è progresso …» (R. Dahrendorf, La libertà che cambia, 1981). E il referendum ci chiama alla speranza e non alla paura di perdere la libertà di un sano pluralismo sociale! n