La vicenda degli amanti di Saronno. E la nostra scelta tra un Sì e un No

L’editoriale di Marco Dal Fior

La vicenda dei due amanti di Saronno obbliga a un esame di coscienza collettivo. Sia che la giustizia alla fine dimostri la loro colpevolezza, sia che ci si trovi di fronte a un gigantesco abbaglio. C’è qualcosa di melmoso e inquietante in questa storia e ci tocca da vicino. Solo così si spiega il gran clamore mediatico che turbina attorno all’ospedale di Saronno in questi giorni.

È il fantasma di Caino che ci trasciniamo dentro da secoli. L’impulso omicida che supera ogni residua barriera e sfocia nel più orrendo dei crimini annullando affetti, rapporti, regole dell’etica e della morale. Leggiamo avidamente le cronache di questi giorni non solo per scongiurare il timore che il dna del killer si nasconda anche nella vicina di casa, quella tutta a modo che ci saluta ogni mattina. Vogliamo in fondo esorcizzare la paura che la follia omicida artigli anche noi.

La quotazione della vita umana, alla borsa dei valori, è scesa così tanto, che ci si ammazza per un posteggio, una lite con il vicino sul cortile condominiale, una partita di calcio, un ostacolo nella carriera. Le regole, d’altra parte, sono saltate da tempo. La corsa alla famiglia modello Mulino Bianco – dove tutto è perfetto, accordato, armonico – dirotta troppo spesso dalla realtà. Che è fatta di anche di sofferenza e lacrime. La felicità non è

una vita senza dolore, è la capacità di dare un senso a quel dolore. E se si smarrisce il significato ultimo del nostro stare al mondo, ecco che tutto si rivolta. Medici e infermieri invece di curarti ti ammazzano. Dicono che lo fanno per alleviare le tue sofferenze, dimenticandosi però di chiederti almeno un parere preventivo. L’amore tra uomo e donna, da sempre generatore della vita, si trasforma in dispensatore di morte, almeno di coloro che sono di ostacolo ai deliranti disegni della coppia. Perfino i figli, lo abbiamo letto con raccapriccio, possono diventare orrendi sacrifici umani da immolare sull’ara di una passione folle.

Il timore più grande è però la mancanza di anticorpi. Dov’erano i vertici dell’ospedale, i colleghi del medico e dell’infermiera, quelli che avrebbero potuto fermare la strage se avessero fatto maggiore attenzione ai segnali? Ci siamo sentiti, noi pazienti, ad un tratto ancora più nudi e indifesi nei confronti della malattia. Credevamo di avere degli alleati e scopriamo adesso che qualcuno di questi ti sparava addosso. Lo ha fatto con armi discrete, incolori e insapori, versandole nell’insalata o nel caffè, raccontandoti che era per il tuo bene. E chi doveva vigilare – per incapacità, distrazione, paura, amore del quieto (?) vivere – ha voltato la testa dall’altra parte.

E’ lì che ci sentiamo tirati in ballo in prima persona. Da che parte avremmo volto lo sguardo nei loro panni? Avremmo rischiato del nostro in difesa di sconosciuti? Per amore dell’altro, di quello che a catechismo chiamavamo “il prossimo” e che vive nelle corsie, nelle file serali davanti alle Suore della Riparazione, arriva con i barconi o rovista nei cestini dei rifiuti alla ricerca delle briciole di noi ricchi epuloni?

Rispondiamo con un sì o con un no: è questo il referendum che ci frulla per la testa e il cui responso – statene certi – ha molti più effetti sul futuro di questo Paese di quello che oggi si celebra alle urne.