Qui la costituzione c’entra poco o nulla. E poco o nulla c’entra pure la riforma. Il voto di ieri ha detto altro, e l’ha detto forte e chiaro. La rabbia e la protesta, la contrapposizione senza se e senza ma ai poteri forti, ha parlato anche in Italia. Dopo averlo fatto in Inghilterra con Brexit e negli Usa con Trump, eccoci servita la nostra bella sollevazione popolare made in Italy. Perché parliamoci chiaro: se questo referendum non fosse stato trasformato da Renzi nel dicembre del 2015 in un voto su se stesso (errore, magari errore calcolato ma comunque errore), il Sì avrebbe vinto con il 70% delle preferenze. A votare sarebbe andato il 30% degli italiani e la riforma (che piaceva praticamente a tutti) sarebbe andata in porto.
Invece, è finito tutto in vacca: dopo quella frase («Se dovessi perdere il referendum considererei conclusa la mia esperienza politica») si è messa in moto la potente macchina del “tutti contro uno”. Si è parlato di tutto, fuorché della riforma: ecco perché secondo noi questa è stata un’occasione persa. Ora che tutto è finito, possiamo pure fare outing: chi scrive ha votato Sì, convintamente. Perché c’era la convinzione che si potesse aprire un cantiere per provare a fare qualcosa, a cambiare qualcosa. Perché siamo stufi di vedere le bandiere di partito e le lotte di potere che coprono e zittiscono ogni cosa: i dibattiti, le idee, le convinzioni. Ci resta un discorso, quello delle dimissioni di Renzi, di una lucidità disarmante. Era un “tutti contro uno”, e quell’uno ha preso il 40%: ha perso, ma ieri è nato un nuovo partito. Quello di Renzi.