Il racconto di Martina Tiranti, andata a visitare il campo di concentramento di Sachsenhausen a poco più di 30 chilometri da Berlino
Sin da bambini ci hanno sempre parlato e raccontato della shoah e di ciò che è stato, dei campi di concentramento, delle camere a gas, della deportazione e delle crudeltà subite dalle minoranze. Ma finché non arriva il giorno in cui decidi con consapevolezza di visitare uno dei tanti, troppi luoghi di prigionia e morte, non puoi davvero capire cosa ha significato e forse non potrai mai davvero capirlo.
Il viaggio a Berlino mi era stato regalato per la laurea, ma non volevo fosse solo una visita ad una città straniera. Avrei dato a quel viaggio un significato più profondo. Il cinema, la letteratura e i libri di storia ci raccontano di una realtà che sembra difficile essere esistita veramente. In quel viaggio avrei visitato il campo di concentramento di Sachsenhausen della località di Oranienburg.
È molto difficile visitare Berlino senza entrare in contatto anche solo parzialmente con il ricordo di quel che è successo poco meno di ottant’anni fa. Berlino è una città che racconta. E non serve andare in un museo. Basta passeggiare e ci si può imbattere nell’Holocaust-Mahnmal, il Meomoriale della Shoah:2711 stele in calcestruzzo in ricordo degli ebrei assassinati. Ricordo la sensazione di freddo e quella di oppressione, sembrava quasi di essere schiacciati dalla pesantezza del ricordo che questi monoliti si portano dietro.
La stessa sensazione l’ho avvertita nel Museo Ebraico dove è collocata l’opera d’arte Foglie Cadute. Mille volti impauriti in acciaio posizionati gli uni sugli altri all’interno di una stanza vuota. Freddo e silenzio opprimente anche in questo luogo ma con una, sostanziale, differenza rispetto all’Holocaust-Mahnmal. Su questi volti sì può camminare. I dischi in acciaio si spostano, si toccano e producono un suono sordo che rimbomba nella stanza e squarcia il silenzio. Quel gemito di vita della lamiera si strozza però immediatamente lasciando nuovamente spazio al freddo e al silenzio.
Freddo e silenzio. È il tempo esterno non aiutava: oltre ad essere dicembre, il giorno in cui sono andata a visitare il campo di concentramento di Sachsenhausen il cielo era grigio, non coperto da nuvole, ma compatto come fosse costituito di fumo. Appena arrivati si entra subito in contatto con la vastità di questo campo di concentramento: un viale alberato costeggia il lungo muro protetto da filo spinato che arriva fino all’ingresso. Sul cancello la scritta Arbeit macht frei (”il lavoro rende liberi”) e dietro una persona con il cappotto rosso che mi ha ricordato la bambina con il cappotto rosso del film Schindler’s List: una casualità che però mi ha dato ancor più da riflettere e pensare.
Varcata la soglia la percezione che si ha all’inizio è di trovarsi davanti ad un’immensa distesa di niente. Davanti a me c’era uno spazio molto ampio, ma gli edifici presenti non riuscivano a riempire quel luogo. Davanti a me era il vuoto. Dentro di me era il vuoto. Il percorso inizia tra le strutture risistemate e quelle ormai inesistenti di cui ormai esiste solo una sagoma nel terreno. Qualunque fosse l’edificio l’odore era sempre lo stesso: pieno e pesante, come di chiuso; come di corpi morti e lasciati lì. E dopo circa due ore di “visita” siamo giunti ai luoghi più dolorosi di tutto il campo di concentramento: la camera a gas, la zona dove venivano fucilate le persone, i forni crematori e l’obitorio. Sebbene i veri “luoghi di morte” fossero i primi, lo stomaco mi si è chiuso guardando l’obitorio: da fuori una piccola struttura non particolarmente invasiva, che però celava al suo interno una rampa dalla quale venivano fatti rotolare i corpi fino alla base. Anche in questi luoghi i polmoni si riempivano di odore di morte, freddo e silenzio. Nonostante ci fossero davvero tante persone -per entrare era necessario fare addirittura la coda- in un luogo del genere ti senti da solo. Senti il vuoto. Il silenzio. E anche respirare sembra quasi un gesto troppo rumoroso.
Sono consapevole che non sia una scelta facile quella di decidere di andare a vedere un campo di concentramento. Non può arrivare come imposizione da parte di qualcuno. Però penso che per comprendere realmente a pieno un periodo storico, QUEL periodo storico, sia fondamentale decidere di vedere con i propri occhi un luogo del genere. Camminare nei posti in cui altre persone sono morte ti avvicina al passato, non tanto al dolore ma proprio alla consapevolezza che quello che abbiamo letto nei libri, visto nei film o solo sentito da racconti è veramente accaduto. Che è reale. E come tale va ricordato affinché rimanga inciso nella memoria.