Ci sono cose che nemmeno la penna più sottile e ispirata sarebbe in grado di raccontare, fissando sulla carta le emozioni e trasformando le lacrime in parole. Parlare a cuore aperto con un papà che un anno fa, esattamente un anno fa, ha guardato gli occhi di sua figlia spegnersi fino a morire è una di quelle cose che non si possono raccontare.
Massimiliano parla della sua Erika e si lascia andare, davanti al cronista spaventato che vede davanti a sé un dolore troppo grande. Una piccola storia ignobile, una ragazzina di quindici anni uccisa da un male troppo cattivo per essere curato, un anno fatto di gesti quotidiani e di una mancanza costante e pesantissima. Insostenibile.
Mi sembra ieri e rivedo tutto, ogni istante. In questi giorni sto rivivendo, attimo per attimo, quei giorni terribili. Il 2 febbraio Erika che entra in ospedale, il 3 febbraio Erika che sta bene e ride, il 4 Erika inizia a stare peggio, poi tutto precipita. Il 6 febbraio a mezzogiorno i medici mi dicono che non c’è più nulla da fare, la mattina del 7 alle 5 e 17 Erika che se ne va.
Immagini e parole, ricordi, che me la fanno sentire tanto vicina. Gesti: andare ogni giorno al cimitero, passare in camera sua tutte le mattine per salutarla come facevo sempre quando c’era, accendere una candela di fianco alla sua foto ogni sera prima di andare a dormire. Erika è tutto questo, ma soprattutto Erika è assenza: perché lei non c’è più. La verità è che ha vinto il cancro, ha vinto la malattia: noi possiamo dire quello che vogliamo, ma ha vinto quel bastardo del cancro. Voi, qualche mese fa, nel raccontare della nostra iniziativa in cui abbiamo raccolto tanti soldi avevate fatto un titolo: “Sorridi Erika, hai vinto tu”. Titolo meraviglioso, davvero. Però la verità è un’altra: Erika ha perso, ha vinto la malattia.
Continuo da solo. Perché Erika è anche un insegnamento: mi ha insegnato a distinguere il bene dal male, le persone buone dagli stronzi. Chi avrebbe dovuto starmi vicino in questo anno è sparito, altri invece sono rimasti: persone da cui non mi aspettavo tanto amore.
I ragazzi della curva: disgraziati, brutti e cattivi. Però sempre presenti, ogni giorno. Loro stanno tenendo vivo il ricordo di Erika e insieme stanno tenendo viva la mia famiglia. Io di loro mi fido, solo di loro.
Spero di sì, ma con i ragazzi sono stato chiaro: fate quello che volete e io ci sarò, ma solo alla fine. Certo, mi piacerebbe raccogliere altri soldi per aiutare bambini e ragazzi che lottano contro il male che si è preso la mia Erika. Bambini e ragazzi che continuano a morire: ultima, qualche settimana fa, la piccola Martina di otto anni. Anche qui, ha vinto la malattia.
Che giornata sarà, oggi?
Una giornata di merda: posso dirlo? Una giornata che mi fa paura, una giornata alla quale penso da mesi, e che adesso è arrivata e in qualche modo dovrò farmela passare. Di certo, alle 5 e 17 metterò la sveglia. Perché in quel momento, dovrò esserci. Dovrò farmela passare, forse, come ho passato tutte le giornate di quest’anno. Pensando a lei, cercando nei gesti la forza per chiudere gli occhi la sera e riaprirli al mattino, andando a lavorare. Senza Erika.
Come tutti i giorni. Quest’anno ho saltato solo una settimana, quando sono andato in montagna con l’oratorio: poi, non ho mancato un giorno. E non è facile, con il lavoro. Perché il cimitero di Brebbia chiude tutte le sere alle 17, e allora devo fare una volata da Sesto Calende dove lavoro per arrivare in tempo. Mi basta poco, qualche minuto con lei: le parlo, la accarezzo. Mi aiutate a fare un appello al sindaco di Brebbia? Che mi lasci aperto il cimitero un po’ di più, ci vado anche quando è buio: non ho paura.
Non potrei fare senza. Starei ancora più male. A volte, quando mi capita di essere in giro per lavoro, riesco ad andare al cimitero al mattino: e allora mi sembra che sia una giornata migliore.
Mia moglie la vive come me, anche lei va al cimitero tutti i giorni, anche lei ha dei gesti ai quali non può rinunciare.
V
La sua Erika. Ogni volta che ne parliamo lei diventa rossa, non dice nulla ma si vede che dentro ha un mondo fatto di ricordi e mancanza. Quando io e mia moglie ci mettiamo a sfogliare le foto di Erika lei corre da noi e le guarda: è piccola, Sofia. Ha otto anni, quando Erika se n’è andata ne aveva sette. Vive questa cosa come può e deve viverla una bambina. Vi racconto una cosa.
Qualche volta torno a casa la sera e la trovo con addosso i vestiti che erano di Erika. Lei è tutta contenta, mi sorride: «Guarda, papà: ho la gonna di Erika, mi sta bene vero?». Io rido: «Occhio Sofia, che Erika si arrabbia». Perché lei era davvero gelosissima delle sue cose, dei suoi vestiti. E adesso mi dovete far dire un’altra cosa, l’ultima.
L’ho già detta, sul vostro giornale, qualche mese fa. Ma la ripeto. Parlo a chi ha dei bambini. Leggete quest’intervista, chiudete il giornale, e andate ad abbracciare i vostri figli: fatelo subito, appena potete. Fatelo, e poi fatelo ancora. Non c’è un motivo particolare per farlo, o forse sì: io darei la vita per abbracciare Erika ancora una volta. Una sola.