In fondo, perché? Perché un giornale locale, di una provincia che non è nemmeno la sua, dovrebbe dedicare otto pagine al compleanno di Vasco Rossi? La risposta che viene da dentro sarebbe “perché sì”, ma capiamo che qualcuno non si accontenterebbe. E allora ci basta dire che il perché si trova nella straordinaria ondata di commenti, fotografie e racconti che ci hanno invaso nel momento in cui abbiamo chiesto ai nostri lettori di aiutarci a celebrare questo giorno speciale.
Vasco si ama o si odia, e questo ormai lo diamo per assodato. Nessuno, neanche chi gioca ad appiccicare un giorno un’etichetta e il giorno dopo quell’altra, può però negare che Vasco è un fenomeno sociale, è parte della storia d’Italia e della storia quotidiana di migliaia se non milioni di persone. Tutti canticchiano le sue canzoni, tutti sanno che faccia ha, pochi forse lo conoscono davvero o si sforzano di farlo.
Cosa volete che vi dica una che l’unica volta che ha avuto la fortuna di incontrarlo si è fatta autografare un braccio per poi tatuarselo il giorno dopo? Niente di quello che volete sentirvi dire, probabilmente. Ma il bello di Vasco è proprio questo: arrivare anche dove e quando non è desiderato, entrare senza chiedere permesso, colpire dritto quando meno te l’aspetti.
E allora eccomi qua. Un’ormai ex adolescente che nel lontano 1998 partì per l’Inghilterra inseguendo la sua vena punk e tornò a casa folgorata sulla via di Vasco. Tutta “colpa” della mai più vista Elena, compagna di studi al campus di Thanet. Che ascoltava senza soluzione di continuità l’album “Canzoni per me” e mi convinse un pomeriggio, sdraiate sul pettinatissimo praticello di Buttersea park, a infilarmi un’auricolare. Boom.
Tutti erano partiti da Malpensa con la Lacoste e tornavano a casa con le Dr. Martens comprate alla bancarella dell’usato a Camden Town; io ero partita con i jeans stracciati e la ferma intenzione di tingermi i capelli di viola e tornavo a casa con la sola voglia di rompere il salvadanaio e comprarmi tutta la discografia di Vasco. Sempre scomoda, mi verrebbe quasi da dire. Per tutti tranne che per un amico molto più grande di me (dico a te, “fratellone”) che aspettava quel momento da anni.
Sì, quell’estate mi ha stravolta e forse nemmeno io allora poteva immaginare quanto. Da quel giorno sotto il cielo di Londra in poi, Vasco mi ha inondata di emozioni, passione, consapevolezze. Mi ha fatto compagnia, tantissima compagnia. Vasco c’è stato anche quando dentro di me e tutto intorno non c’era più niente. Vasco per me è l’odore dell’asfalto dai finestrini abbassati di notte, la fatica di chilometri e chilometri macinati per essere ancora una volta sotto il suo palco, il freddo che patito per giorni interi fuori da un cancello per intravederlo schizzare via su un’auto dai vetri oscurati, il mal di stomaco provocato dalle risate fatte con amici che senza di lui non avrei mai incontrato.
Il “mio” Vasco è nella canzone ascoltata per soffocare il rumore dei singhiozzi, ma anche in quella sparata a tutto volume per suggellare un momento meraviglioso. È l’incipit della mia tesi di laurea. È il senso di libertà che mi ha sempre dato pensare a lui come l’uomo “più semplice che c’è” che esce davanti a 100 mila persone e canta “Io sto male”, senza doversi vergognare, senza doversi giustificare. Vasco ha il sapore di una sigaretta appena accesa e della birra bevuta nel silenzio al buio per spegnere i pensieri. Ha il calore della carezza che nessuno ti ha dato proprio quando la stavi cercando e la freddezza di chi ti dice la verità nel momento esatto in cui hai bisogno di sentirtela urlare in faccia.
Per questo e per molto altro ti dico grazie, Vasco. E ti auguro buon compleanno. Questo inserto è dedicato a te. E a tutti quelli che, come me, non sono fatti per i cieli senza nuvole.