John Foppe è un pugno. Che ti prende di sorpresa alle 18 di un normale mercoledì pomeriggio. È un pugno che colpisce la mente e la sveglia dal suo torpore. È un pugno che ti sorride, facendoti ancora più male, e ti invita a guardarlo, a sintonizzarti sulle parole, anche se queste scorrono veloci diventando stilettate che ti infilzano il petto.
John Foppe è un pugno che si trasforma in carezza: quella che ti accoglie, generosa e calorosa, dopo il dolore, quando capisci che la durezza del verbo ha infine smosso qualcosa. Ti ha fatto sentire nudo, in effetti, nudo come era nudo John, in mezzo a una stanza all’età di dieci anni. Lui, nato senza braccia («non mi sono mai chiesto perché: quello è passato»), impossibilitato a vestirsi dopo che la madre e i fratelli avevano deciso che lui, lui in quella condizione, dovesse imparare a farcela da solo. In ogni aspetto della vita. «Non fossi cambiato allora, non lo avrei fatto più».
John Foppe è un uomo che ha imparato sulla sua pelle – con una lotta che nasce dalla consapevolezza ed è conscia di dover durare una vita intera – che «non esistono problemi irrisolvibili. Esistono solo problemi non ancora risolti». E, dopo averti sfidato con gli occhi, pronunciando una frase che suona tanto come fatta e inutile, si siede su una sedia, abbranca una lattina di Sprite con i piedi, usa il suo alluce per staccarne la linguetta, la solleva da terra, la versa in una tazza e se la porta alla bocca. Con nonchalance. La stessa nonchalance con cui John guida la macchina, scia, viaggia, vive, ama.
«Possiamo cambiare»
John Foppe è un “motivational speaker” americano che ieri ha incantato la platea di Ville Ponti, presente la Openjobmetis di coach Attilio Caja al completo, il settore giovanile e tutta la società biancorossa. Invitato dall’amico Riccardo Polinelli, Foppe – oltre a condurre una grande società di beneficenza – passa la vita a raccontare… la sua vita, perché quel destino che gli ha tolto qualcosa da una parte gli ha restituito altrettanto da un’altra: gli ha dato la capacità di entrare nel cuore delle persone, di ergersi a esempio per gli altri, di aiutare le coscienze a smuoversi.
«Ognuno di noi, nella sua esistenza, combatte contro una condizione. Esistono limiti invalicabili, cose che non si possono cambiare. Una cosa, però, si può certamente cambiare: noi stessi». Lui lo ha fatto e racconta la strada percorsa: la ricognizione della sua “diversità”, a cinque anni, a scuola, davanti a un campo da football che non voleva varcare per non sentirsi inadeguato. («Lì ho capito: I am different, sono diverso»); la voglia irrefrenabile di mollare tutto: «Non
riuscivo a fare una cosa? C’erano la mia famiglia ed i miei amici a farla per me. Io manipolavo gli altri con la mia disabilità….»; il punto di rottura: «Volevo andare ad un campeggio estivo, io che non sapevo nemmeno mettermi i pantaloni da solo. Mia madre, dopo un “no” secco, decise di fare ogni sforzo per farmi cambiare: disse ai miei fratelli di non aiutarmi più, lei stessa non mi aiutò più. E io mi ritrovai da solo in quella stanza, nudo, a scervellarmi sul modo per infilare quei maledetti pantaloni».
«Accettate i rischi»
Da quella stanza è uscito. Vestito: «Perché è ciò che pensiamo che crea la nostra identità. Ed è l’identità che a sua volta crea la realtà. La disabilità, ovvero la mia realtà, era dentro di me». E qui che sboccia l’insegnamento, è ora che i pugni iniziano a diventare amorevoli carezze: «Allenate il pensiero, perché creerà un’identità diversa. Rifiutate la vostra condizione, rifuggite la paura, la sconfitta: questo significherà dire sì a tante opportunità».
Maynor e compagni ascoltano attenti, talvolta con la bocca aperta, anche perché è difficile non lasciarsi trascinare dallo stupore davanti alle parole e ai gesti di Foppe: «Può un uomo senza braccia insegnare qualcosa a una squadra di basket? – chiede, sorridendo, lo speaker – No, ovviamente. Posso dirvi solo come guardare dentro di voi, soprattutto davanti agli insuccessi: pensare di non essere abbastanza bravi scaturisce paura, dubbio, esitazione. E l’esperienza ci insegna che tutto ciò è negativo. E allora imparate a provarci con tutto quello che avete. E imparate il valore della fiducia in chi vi circonda: è un rischio, certo. Ma accettare una vita senza rischi non è la soluzione di nulla».
L’ironia dissacrante, lo sappiamo, è dietro l’angolo: hanno dovuto chiamare un motivatore per risollevare quei “cadaveri” della Openjobmetis? No, la salvezza di Cavaliero e sodali non è passata dalla “lezione” di John Foppe. Facciamo, però, un passo indietro al titolo dell’incontro: “What’s your excuse?”, Qual è la tua scusa? Ecco che allora i dodici esseri umani, non i giocatori, che compongono la squadra di Attilio Caja ieri sera sono forse tornati a casa con qualcosa dentro. Qualcosa di più (forza) e qualcosa di meno (scuse). Come tutti i presenti, del resto. E, dalla vita al campo, il passo può essere breve. Niente più scuse, quindi, cara Varese.