«Fatti avanti, per il bene di tutti. Io chiedo soltanto di conoscere la verità sulla morte di mia figlia. Se l’assistito dell’avvocato Vittorini ha davvero scritto quella lettera si riveli e chiarisca ogni circostanza. Per Lidia. Perché nascondersi se si è deciso di dire la verità?».
, madre di , la studentessa varesina uccisa a soli 20 anni con 29 coltellate nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987, si rivolge al misterioso cliente (non è noto nemmeno se si tratti di un uomo o di una donna) rappresentato dall’avvocato Piergiorgio Vittorini, legale bresciano, che con una lettera inviata alla corte d’assise presieduta da , alla procura generale di Milano e ai difensori di Stefano Binda, 50 anni, di Brebbia,
arrestato il 15 gennaio 2016, 30 anni dopo il delitto, con l’accusa di essere l’assassino di Lidia, ha illuminato come un fulmine a ciel sereno la prima udienza del processo a carico del cinquantenne. Una manciata di righe, una decina in tutto, con le quali Vittorini informa tutti di rappresentare il vero autore della lettera In morte di un’amica, missiva anonima che recapitata a casa Macchi il 10 gennaio 1987, giorno delle esequie di Lidia, è stata considerata dagli inquirenti come lettera scritta dall’omicida o comunque da qualcuno che del delitto sa molto. Quella lettera, che una perizia attribuisce a Binda (che invece ne disconosce la paternità), è uno dei cardini principali del castello accusatorio. Vittorino è pronto a testimoniare in aula, ma non a rivelare il nome del cliente in rispetto del segreto professionale al quale è tenuto. Di fatto, però, se l’assistito che asserisce di essere l’autore della missiva non si farà avanti «la testimonianza de relato del legale non vale nulla. Non è ammissibile», spiega , legale della famiglia Macchi.
Di qui l’appello di mamma Paola, pacato e lucido, come soltanto questa donna eccezionale riesce ad essere.
«È nell’interesse della verità, dunque nell’interesse di tutti noi che questa persona si faccia avanti – dice Bettone – da 30 anni aspettiamo di conoscere la verità su Lidia. Faccia un passo avanti e ci consenta di conoscerla questa tanto attesa verità».
Il perché sia fondamentale che il cliente di Vittorini si faccia avanti lo spiega perfettamente Pizzi.
«La famiglia Macchi non ha mai voluto giustizia a ogni costo – spiega il legale – hanno sempre chiesto di individuare il colpevole, non un colpevole. Questo presunto vero autore di In morte di un’amica rivelandosi potrà fornire tutti gli elementi necessari a stabilire, in modo certo e inequivocabile, se davvero fu lui a scrivere quella missiva». Attraverso un confronto del Dna (ne è stato estratto un campione anonima dal francobollo affrancato alla busta) e una perizia grafologica.
«Celandosi ci troveremo di fronte a una testimonianza non ammissibile che avrà il solo effetto di creare un elemento di suggestione in un processo che ha invece assoluta necessità di certezze. Per dare alla famiglia Macchi quella verità che aspetta con dolore da 30 anni».
In effetti il nodo è cruciale: la sola testimonianza di Vittorini, senza riscontri, non può e non deve bastare. Non basta alla famiglia Macchi perché così, nebulosa e impalpabile, la vicenda rischia di danneggiare tutti. Lidia. La sua famiglia. E lo stesso imputato.