«Torturiamoli anche qua». Questo uno dei commenti più tristi e raccapriccianti comparsi sotto l’articolo, che abbiamo pubblicato ieri, sul campo di prigionia per omosessuali in Cecenia. Voglio iniziare con questo esempio, perché nella superficialità degli atteggiamenti umani si nasconde il peggiore rischio che l’umanità torni a commettere gli orrori del passato. Perché anche quando non si commettono le atrocità in prima persona, si è lo stesso colpevoli, se ci si gira dall’altra parte. Se si chiudono gli occhi. Se ci si dice semplicemente “non è affar mio”.
Oggi viene celebrato il 25 Aprile, una ricorrenza che sta perdendo, anno dopo anno, la sua carica, la sua forza. Ha senso festeggiare il 25 Aprile, se il nostro Paese sta sprofondando, insieme al resto del mondo occidentale, in una crisi non solo economica, ma soprattutto di valori, senza precedenti? Ha senso festeggiare il 25 Aprile, per assistere al solito teatrino della politica? Da un lato i partiti che se ne vogliono appropriare per proprio tornaconto elettorale, ergendosi ad eredi della lotta partigiana. Dall’altra chi si appropria dell’eredità dei repubblichini, anche qui per propri tornaconti elettorali.
Ha senso festeggiare il 25 Aprile, considerato uno dei momenti fondanti della nuova Italia, se oggi il nostro Paese si trova sull’orlo del collasso sociale?
Il senso c’è.
E va molto oltre il ristretto orizzonte della scadente dialettica politica italiana.
Festeggiare, o meglio celebrare (più consona come parola) il 25 Aprile ha il significato fondamentale di ricordare l’abisso nel quale l’umanità può sprofondare. L’abisso della guerra, un orrore verso il quale l’uomo, purtroppo, da sempre tende e sempre tenderà. La storia è maestra di vita e la tendenza umana al conflitto è sempre dietro l’angolo. Disinnescare questa tendenza è possibile, anche se molto difficile.
E uno dei modi è quello dell’educazione, dell’insegnamento, del tramandare la memoria.
La memoria degli orrori della guerra non l’abbiamo appresa sui libri di scuola. Fino alla mia generazione l’abbiamo conosciuto in famiglia, dai racconti dei nostri nonni, mandati poco più che ventenni, e in molti casi anche sotto i vent’anni, a morire nelle lande desolate della Russia, sul confine greco-albanese. Mandati nel deserto come carne da macello.
Ragazzi che oggi avrebbero da poco tempo finito la maturità, all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso furono usati come carne da cannone per la mania di potenza di Benito Mussolini, che avrebbe voluto sedersi al tavolo dei vincitori, nella follia illusoria della guerra lampo tedesca, con un tributo di morti da mettere sul piatto della bilancia.
L’orrore di considerare la vita umana come una proprietà di cui ci si può disfare. Di considerare gli esseri umani non come simili, ma come esseri inferiori. Questo porta la guerra.
Alla progressiva disumanizzazione di una società.
E la guerra non è uno spettro lontano, come i fatti attuali ci insegnano. E non soltanto quelli esterni al nostro Paese. La violenza nasce dall’odio. E oggi tra la gente l’insoddisfazione sta portando ad un crescente bisogno d’odio che, se non va arginato, avrà conseguenze tremende.Oggi più che mai il senso del 25 Aprile sta nel ricordare, e comunicare alle nuove generazioni, cosa è l’orrore verso cui l’uomo tende. E come impedire di seguire quella strada.