«La lotta per avere la libertà è un valore da tramandare»

Il partigiano Luigi Grossi, detto“Cin”, è la memoria per i più giovani

Inizia con una lettera scritta per ricordare la Liberazione del 25 aprile del 1945 il racconto del partigiano Luigi «Cin» Grossi alle migliaia di ragazzi e studenti varesini che ha incontrato in questi giorni nei teatri e nelle scuole per testimoniare loro la sua esperienza nella Resistenza: «Una scelta obbligata contro i dieci anni di guerra cui ci aveva condannato il regime fascista».

La lettera (pubblicata nella raccolta epistolare firmata da alcuni partigiani «Io sono l’ultimo», edito da Einaudi), parte dall’esplosione di gioia dell’entrata in Milano del 25 aprile per spiegare tutto ciò che avvenne prima, e quindi il perché di tanta gioia.

Il 25 aprile ci fu l’ordine di insurrezione, significava che avevamo vinto, ma la guerra in realtà finì due settimane dopo, l’8 maggio, quando i tedeschi si decisero a firmare la resa. Tant’è che gli ultimi due amici della mia brigata morirono il 5 maggio, uccisi dai cecchini fascisti che sparavano dalle finestre a Milano. Una violenza vergognosa e volgare perché ormai la guerra l’avevano persa, uccidevano solo per il gusto di uccidere.


Sono nato ad Arona nel’26, nell’Italia fascista. Era quella l’unica realtà che avessi mai conosciuto. Ero un ragazzo che giocava a imparare a volare con gli amici lanciandoci con un vecchio aliante giù per le colline. Poi l’8 settembre 1943 ci fu la strage di Meina, sul lago Maggiore. Fu il primo eccidio compiuto in Italia dai nazisti. Tra le vittime c’erano persone che conoscevo bene, vecchi e bambini che neppure sospettavo potessero essere ebrei talmente erano inseriti nella società. Non aveva senso e capii di colpo cosa stava succedendo. Eravamo in guerra da otto anni, dalla campagna di Abissinia nel ’35, la guerra in Spagna dal ’36, nel ’39 l’Albania e poi la seconda guerra mondiale.


La guerra per me è stata un massacro continuo di amici e ragazzi poco più grandi me. Dieci anni consecutivi di guerra e tutte guerre di aggressione, volute e cercate dal regime che ha costretto noi, il popolo, a subire lutti, miseria, fame, freddo, fatica. Ho fatto quello che si doveva fare, una rivolta contro la guerra.

Avevo 17 anni. Dapprima fui staffetta, distribuivo l’Avanti in fabbrica. Poi salii in montagna, e partecipai alla Repubblica dell’Ossola. Eravamo pochi ma sembravamo tantissimi. Percorrevamo fino a 40 chilometri in una notte per far sentire la nostra presenza continua, anche se solo con piccoli atti dimostrativi.


Sì, così mi chiamava la mia sorellina e così ero conosciuto da tutti. Di fatto era più identificativo di una fotografia…


Mi chiedono cose cose mote operative. Ad esempio come eravamo vestiti, dove dormivamo, come vivevamo, se sono stato ferito e quante persone ho ucciso.


La verità, su tutto. Sì sono stato ferito e no, non lo so quante persone ho ucciso. Quando sparavo lo facevo assieme ai compagni della mia brigata, in gruppo. E se qualcuno cadeva sul fronte opposto, non sapevo se era stata la mia pallottola o quella di qualcun altro a colpirlo.

Una volta sola. Era la notte della vigilia di Natale del ’44. Ero tornato ad Arona per cenare con la ma famiglia e stavo risalendo in montagna quando incrociai un soldato tedesco. Un ragazzo, come me. Ci guardammo negli occhi un istante e proseguimmo ciascuno per la sua strada.

Sono felice e sto bene. Ho avuto una vita piena di soddisfazioni, ho tre figli, sei nipoti e una moglie, Marialuisa, che adoro. I ragazzi di oggi sono ancora molto curiosi di sapere e finché posso risponderò alle loro domande. Credo che sia giusto raccontare ai più giovani, a chi ha avuto la fortuna di crescere in pace, cosa significhi essere in guerra e dover lottare per riavere la libertà. Leggo spesso critiche sulle nuove generazioni, come fossero degenerate, ma non sono d’accordo. Rivedo in questi ragazzi la stessa curiosità dei miei figli quando erano bambini, meritano di essere ascoltati e di avere risposte.