Un concerto è come quel famoso specchio che, impietoso, ti ricorda il tuo passato, ti mette davanti al tuo presente e che, bastardo, ti dà un piccolo sguardo su quello che potrebbe essere il tuo futuro. È una chiacchierata con te stesso, nuda e cruda, dove i se e i ma non sono contemplati e dove l’unica regola è la verità.
Parte quel brano e il nastro della tua vita si riavvolge, torni indietro a quello che hai fatto. Quel ritornello urlato a squarciagola con gli occhi chiusi e il cuore in mano è un vaffanculo a quello che è stato, al dolore che hai dato alle persone che ti stanno vicine e che continuano a starci, a tutta la fatica che ti sei portato sulle spalle e sulla schiena in questo ultimo anno, alle mille ore di lavoro, ai casini, al tuo volerti sentire Superman in un mondo di kryptonite, alle persone che hai deluso, a quel fantasma che vedi solo tu e che ti dice che non sei bravo abbastanza.
È un vaffanculo alle scelte giuste, quelle che però non hai preso. Ma anche per quelle che invece hai avuto il coraggio di fare, quelle che al bivio della vita ti hanno fatto imboccare la strada che in quel momento era quella più indicata. È un meraviglioso vaffanculo sputato in faccia alla sconfitta. Un urlo per le persone che hai reso orgogliose di te, per la tua intervista al chitarrista uscita perfetta e senza refusi, per le tue vittorie quotidiane, per il titolo azzeccato per un pezzo, per il sorriso strappato alla tua ragazza. È un urlo per te.
Poi parte quell’altro brano, e ti ricordi di come stavi in quel luglio del 2008. Di come hai lasciato fuori tutto il resto perché nulla potesse intaccare la sua immagine, sacra, bellissima, che cominciavi già a far sbiadire nella tua mente.
Ti guardi attorno, un’arena umana davanti a te. Schiere di gente pronte alla battaglia, al pogo, e tu ti trovi in mezzo, a dover scegliere: dove vado, con chi sto, cosa divento, chi seguo, chi sono. Un’altra canzone e il caos inizia. E pure tu ti senti intorpidito e vorresti essere più come te stesso e meno come gli altri. Perché ad un concerto ti guardi indietro ma butti l’occhio anche su ciò che sei oggi, o che vorresti essere. Vedi gli altri, la soddisfazione, la passione che trasuda dalla loro pelle, la convinzione in quello che stanno facendo, nei loro sogni.
Ripensi così alla ricerca di una tua identità. E ti sforzi a cercare anche tu quel qualcosa che hai sempre voluto, un qualunque luogo a cui appartenere. E così lo urli, sulle note di quell’altra canzone. Butti fuori tutto, mostri del passato, fantasmi del presente, bui sul futuro. Fai sanguinare tutto fuori. Nella voce di Chester Bennington ci sono le tue vittorie e le tue sconfitte. È vero, prima di saper volare bisogna saper cadere, anche se fa male schiantarsi sull’asfalto. Ma in fondo, è la vita. Alla fine, non importa.
Qualcuno ha definito quello dei Radiohead come il concerto perfetto. Quello dei Linkin Park al parco dell’Autodromo di Monza non è stato perfetto. È stato il concerto giusto, quello che serviva.