– «Nessun profilo genetico tra quelli rilevati dai reperti inerenti all’omicidio di Lidia Macchi appartiene a Stefano Binda».
Tra i testimoni ascoltati ieri in aula, durante la nuova udienza del processo Binda, anche i tre consulenti genetici, Roberto Giuffrida, Carlo Previderè e Pierangela Grignani, ascoltati in audizione corale. L’analisi dei reperti ha escluso in modo assolutamente categorico che vi siano tracce del Dna di Stefano Binda sui lembi del tessuto che rivestiva l’auto della ragazza, sul materiale biologico repertato 30 anni fa ma soprattutto sulle buste che contenevano le due lettere anonime protagoniste della vicenda.
«Abbiamo analizzato in particolare i lembi della chiusura delle due buste contenenti le lettere», hanno spiegato i periti. La parte rivestita di colla che viene generalmente leccata per sigillare la busta. Accertato che vi fosse abbastanza materiale per eseguire dei raffronti i consulenti hanno isolato due diversi profili genetici. Il primo, femminile e sconosciuto, trovato sulla busta contenente la celebre missiva dai contenuti «paranormali» intitolata Una madre che soffre e inviata a casa Macchi 30 anni fa. L’autore della lettera scrive di aver «registrato su un nastro magnetico» alcune frasi «di origine paranormale» pronunciate dalla ragazza dopo la morte.
«So chi è stato ad uccidermi, è stato un mio amico di Comunione e Liberazione», si legge in uno dei passaggi dello scritto che nella lettera viene attribuito alla vittima.
«C’era anche lui quando mi hanno trovato – prosegue – è stato proprio lui a trovarmi ed è stato costretto a fingere un grande sgomento e dolore».
La seconda missiva è quella sulla quale l’accusa ha incardinato il capo di imputazione. La celebre In morte di un’amica, arrivata a casa Macchi il 10 gennaio 1987 giorno delle esequie di Lidia, che gli inquirenti considerano scritta dall’assassino o da qualcuno che molto sapeva di quel delitto.
E che Patrizia Bianchi, superteste ed ex amica di Binda, attribuisce proprio all’imputato riconoscendo come appartenente a Binda la grafia con cui la missiva fu scritta.
«Dalla busta abbiamo ricavato il profilo di un Dna maschile con non appartiene a Binda». Binda potrebbe aver fatto sigillare la lettere ad altri? E a chi? Visto che i periti hanno precisato che quel Dna non appartiene «né al padre di Binda, né ad altro familiare, né agli amici più vicini a Binda, come don Giuseppe Sotgiu, con il cui Dna ci è stato chiesto di raffrontare il profilo ricavato dalla busta». Perché un assassino avrebbe dovuto far chiudere ad altri, e non a un amico fidato (tutti esclusi), la busta contenente una lettera compromettente subito balzata agli onori della cronaca creando così un testimone potenzialmente incontrollabile? Sarebbe un tentativo di depistaggio dal potenziale effetto boomerang. Senza contare che 30 anni di Dna nessuno parlava, si era agli albori. Quindi perché prendere una simile precauzione?
A questo punto è il presidente Muscato che chiede: «ma questo profilo è stato confrontato anche con quelli contenuti negli archivi nazionali?». No. Nessuna richiesta in questo senso dalla procura generale di Milano. È vero che l’archivio è recentissimo. Ma è altrettanto vero che seppur quale ipotesi remota, sempre sulla strada dettata dalla procura generale di non lasciare niente di intentato, anche questo confronto andrebbe fatto.