Fa sempre male. Ma quando vedi un “tuo” luogo colpito, quando i feriti sono sdraiati all’ombra della bancarella dove hai comprato quell’anello che porti sempre, quando al centro della scena c’è la panchina su cui ti sei fatta venire il mal di stomaco dal ridere… beh sì, fa un male cane. Barcellona è una succursale d’Italia. Barcellona è casa di uno dei tuoi più cari amici. Prendi il telefono, scrivi forsennatamente, fissi con le pupille fuori dalle orbite finché quelle due spunte diventano blu e lui ti risponde che sì, è tutto ok, sta bene. E ti rendi anche conto che da mesi non ti passava per la mente di dirgli “ciao”. Ma oggi è diverso. Oggi il mondo ci mette un’altra volta alla prova. Oggi, per l’ennesima volta, la nostra libertà di vivere, semplicemente vivere, è appesa a un filo.
L’Isis, le seconde generazioni, i tuttologi, i predicatori. Tutto sacrosanto. Ma quando vedi un “tuo” luogo colpito pensi solo a una cosa: che al posto di quella ragazza col volto insanguinato potevi esserci tu. Che quella lingua, che hai studiato mossa da una passione viscerale, oggi urlata dai poliziotti catalani ti sembra l’eco dell’inferno. Che sotto quegli edifici tu hai respirato la vita a pieni polmoni, come quei cadaveri stavano facendo.
E non riesci a formulare un pensiero sensato. Non puoi farlo. Puoi solo stare in silenzio. Ripensare a quei momenti. Celebrare la vita. Continuare a vivere, con tutta te stessa. Perché è quello che “loro” non vogliono. Perché è quello che “loro” si meritano.