“La mia generazione” (uscito il 22 settembre) è l’omaggio di , La Crus e Carnival of fools, all’unica vera (e purtroppo irripetibile) grande stagione dell’indie rock italiano. Sul finire del millennio la scena musicale tricolore si illuminò d’immenso, per così dire, staccandosi dalla tradizione melodica, mettendo all’angolo quella puzza di provincia non romantica e banale che ammorbava talune storiche produzioni.
E non per magia ma per merito di realtà come
(che del Consorzio suonatori indipendenti furono il progetto maggiore), , , , e via discorrendo, avvicinarono un tantino Milano, Torino e l’Emilia a quella Seattle disperata e in fiamme che segnò un decennio. E forse anche qual cosina più in là.
Giovanardi rende omaggio alla sua generazione che lo vide assoluto protagonista, innovatore, musicista che non ha mai temuto la sperimentazione. Di autore che ha sempre avuto davvero qualcosa da dire. Giovanardi rende omaggio e lo fa da par suo trasformando un concept album ad altissimo rischio “operazione nostalgia canaglia” in un disco mai sbaffato, affatto scontato e soprattutto contemporanea. “La mia generazione”, e questo è il primo punto, non è un album di cover. La tracklist contempla titoli assolutamente noti: Aspettando il sole (), Lieve (Marlene Kunz), Corto Maltese (Mau Mau) o Nera Signora (La Crus). Poi c’è Forma e Sostanza (C.S.I) ma quella merita (quanto meno a livello personale) un paragrafo a parte.
Per chi oggi ha 43 anni quei titoli sono un “romanzo di formazione”. Hanno segnato il passaggio all’età adulta, sono il punto in cui buona parte di quella generazione (la mia) ha iniziato più o meno ad avere una vaga idea di chi fosse e dove volesse andare. Quella musica aveva il potere dell’indie vero: ribellione consapevole. Ragionata, pianificata dopo attenta analisi dell’universo che ci circondava. C’erano I dischi del mulo, il Maciste (contro tutti); c’erano la Mescal e il Jungle Sound. Un mondo piccino ma così denso, così gravido di idee da diventare un’onda montante. Per chi quella stagione l’ha vissuta “La mia generazione” contiene solo un’eco del tempo che fu.
Per il resto l’album è un disco nuovo. Giovanardi non ricanta le canzoni di altri. Giovanardi fa sue quelle canzoni, una dopo l’altra. Un cannibale che usa gli arrangiamenti orchestrali come pochissimi saprebbero fare (e del resto con i ha aperto una data di un tale). E così “Non è per sempre” (Afterhours) perde tutta la sua rabbia e si scioglie in un rammarico che starebbe benissimo sul palco dell’Ariston.
Strepitosa Baby Dull (Ustmamò), mentre , o , che hanno collaborato a “La mia generazione” sempre da protagonisti di quel tempo, si fanno sentire eccome. Giovanardi è riuscito nell’impareggiabile impresa di rendere maledettamente contemporaneo un passato importante. Che ha ancora molto da dire.
Musica nuova di zecca che dovrebbe essere veicolata prima di tutto verso le nuove generazioni. Quelli che oggi hanno 20 anni e magari (come capitò a noi in quella stagione di fine Millennio) pensano di avere un talento da esibire. Unico neo, ma qui si va sul personale e ogni opinione al riguardo è lecita, è “Forma e Sostanza”.
Facile capire perché Giovanardi l’abbia scelta: quel brano è iconico, è il sigillo e il simbolo di tutta quella stagione. E soltanto per questo, chi quel sigillo se lo porta dentro a più di 20 anni di distanza, non riesce e non può immaginarla interpretata se non da . L’anarchico poeta che di quel pezzetto importantissimo della musica italiana fu poeta-vate.