Gigi D’Alessio è pronto a far innamorare Varese.
Alla vigilia della tappa al teatro Openjobmetis di piazza Repubblica della sua nuova tournée teatrale, prevista per giovedì 9 novembre al a Varese, l’artista inguaribile romantico si racconta in una chiacchierata a tu per tu, che va da un anno pieno di ricorrenze importanti al Sanremo che verrà.
Il cantautore napoletano neocinquantenne porterà sul palco di Varese alcuni pezzi dell’ultimo album «24.02.1967» insieme a quelli più celebri dei primi venticinque anni di carriera dagli esordi nella scena neomelodica partenopea fino alla ribalta internazionale.
Saranno due ore di concerto che «si fermeranno al momento giusto» spiega lo stesso Gigi, perché «devi lasciare nel momento giusto. La gente deve andar via che ha ancora voglia di cantare. È come togliere il piatto, mentre fai la scarpetta». Ad accompagnarlo sarà la band storica: «ottimi professionisti che sono cresciuti insieme a me».
La cosa più difficile è stata la scaletta. Condensare 25 anni di carriera non è semplice. Scegliendo anche solo una canzone per anno avremmo sforato i tempi, ma ne canto 40 per cercare di accontentare tutti. Spesso non basta, perché c’è sempre qualcuno che mi chiede un altro titolo.
La gente usciva super felice. Quando gli artisti hanno un nuovo album, di solito, la metà del concerto è dedicata alle ultime canzoni. Io, invece, in questo tour canto tutte le mie hit e solo 4 nuovi pezzi.
L’ispirazione mi arriva direttamente dalla musica. Io compongo contemporaneamente parole e note. È la musica che mi fa viaggiare, pur stando fermo, in un ricordo, verso un desiderio, in un rimorso o dentro una tematica sociale. Ogni mio disco descrive ciò che è la mia vita in quel momento. Non tengo le canzoni nel cassetto perché scrivo quando sento il bisogno di dire qualcosa. Le canzoni si possono assemblare come un mobile dell’Ikea oppure, come nel mio caso, si possono scrive quando si sente la voglia di raccontare e raccontarsi, di scrivere e di comporre.
Potrei scrivere per tutti e l’ho fatto molto, soprattutto agli inizi e a livello napoletano. Poi ho scritto molto per Anna (Tatangelo) e per me. Poi non è più capitato anche se volte, mentre componevo, mi è capitato di pensare che se quelle canzoni le avessero cantate Renato Zero o Eros Ramazzotti forse l’avrebbero fatto meglio di me.
Ci sono tre situazioni diverse. In Europa la scaletta è fatta dell’85% di miei brani italiani e per il 15% si tratta di classici rivisitati che ho raccolto in un album di qualche tempo fa. In Canada e Satati Uniti le percentuali passano a 65 di repertorio e 35 di classici napoletani. In Sud America, invece, canto tutto il mio repertorio in spagnolo. Diciamo che sono camaleontico e adatto lo spettacolo al luogo che mi accoglie.
Sono moltissimi gli italiani all’estero. La vera canzone italiana conosciuta è quella napoletana. Ed è proprio grazie a quei classici amati dagli immigrati, che i figli di quelle persone hanno scoperto la mia musica. L’Europa, invece, è come fosse grande casa dove si vede quello che succede e tutto è a portata di mano.
Sento il senso di responsabilità nei confronti di queste persone, soprattutto per quanto riguarda l’amore. Spesso ci si vuole fingere superiori e ci si mostra disinvolti, ma dentro si soffre moltissimo. L’amore però continua ad essere una parte importante della nostra vita. Altrimenti non si spiegherebbero il mio successo e i tanti sold out ai miei concerti perché nella maggior parte dei casi io racconto quello.
Mi è capitato di parlare con un po’ di donne e si lamentavano proprio della mancanza di romanticismo. Tutti vogliono andare al sodo e nessuno più parla d’amore, corteggia o cerca di conquistare. In tante mi hanno detto che ascoltando le mie canzoni sognano più che nella vita reale. La voglia di sognare non manca e i sentimenti non sono antichi o moderni, ma sempre attuali perché il cuore deve battere.
Quelli vanno fatti quotidianamente. Ogni giorno ti insegna o ti toglie qualcosa ed è bello scoprire cosa accadrà è un regalo di Dio. Dal pubblico ho ricevuto molto e non so se riuscirò mai a ricambiare. Come uomo vorrei fare qualcosa per gli altri. Se posso rendere felice qualcuno, mi germoglia un giardino dentro. Non amo vedere la sofferenza perchè la assorbo. Vorrei realizzare un ospedale per far curare i meno fortunati e aiutare la ricerca. In questi giorni è importante la campagna di sensibilizzazione di AIRC, l’associazione Italiana per la ricerca sul cancro. So quanto si soffre in questi casi – sia il malato sia chi sta vicino che non può far nulla – perché ho perso mamma, papà e un fratello in questo modo. Poter fare qualcosa in questo senso, mi farebbe sentire realizzato.
Io non so ancora se ce l’ho fatta (ride). La mia più grande fortuna è fare un lavoro che amo. Penso ai ragazzi che si laureano e sono costretti a fare camerieri. Io sono fortunato perché mi pagano per divertirmi e fare ciò che più mi piace. Proprio per questo mi sento – soprattutto in campo sociale – in dovere di dare, per quanto ho ricevuto. Sono stato prima cantante rionale, poi cittadino, poi campano,
poi del meridione e finalmente italiano. Sanremo mi aperto le porte del mondo. Ho capito che le cose funzionavamo dal 2000 perchè se andavo a fare concerto in Belgio o Germania, c’era gente che cantava i miei pezzi a memoria. E ancora ci sono stati live incredibili, la televisione da One Man Show, il Radio City Music Hall, il braccio di ferro con Sylvester Stallone, duetti spettacolari da Liza Minnelli al Manhattan Transfert. Sono emozioni indescrivibili che arrivano e non ti fano capire più nulla.
Una sola cosa: non c’è spazio per il privato. Ovviamente ho tolto tempo alla famiglia ai figli. L’ho scritto anche in una canzone (Notte di lune storte): “ho trovato un figlio già cresciuto che parlava. Io non ho una foto insieme a lui quando giocava”. Tra concerti, voli, prove e spostamenti il tempo passa e nemmeno te ne accorgi.
Devono fare quel che vogliono. Il quattordicenne, Luca, inizia adesso a “giocare” con la musica, ma si vedrà. Io non imporrò loro nulla come hanno fatto i miei con me. Ho iniziato a 4 anni e dopo più di 40 anni sto ancora giocando.
Per un artista è sempre onore salire su quel palco e entrare nella rosa dei 20 finalisti è da privilegiati. Tutti vorrebbero partecipare, ma bisogna andare con una motivazione. Sono a favore che a guidare il Festival ci sia un artista importante come Claudio Baglioni che ha scritto la storia della musica italiana. La macchina è affidata a chi veramente di musica ne capisce più di tutti e infatti ha già fatto due scelte molto importanti perché è un musicista e un cantautore e sa cosa c’è dietro a una canzone e a un artista: ha tolto l’eliminazione e il limite dei 3 minuti a brano. Magari perderà qualche punto di share, ma dobbiamo pensare al “qualitel”, a una sorta di indice di qualità della proposta perché la vera protagonista è la canzone.