L’icona ha strappato il velo e ha capovolto il concetto di fanatismo: non il pubblico a cercare Nick Cave ma “l’oscuro signore”, come spesso è stato definito (non sempre appropriatamente) l’artista australiano, a bramare il contatto con la sua gente.
In un Forum che all’inizio pareva troppo grande per Cave e i suoi Bad Seeds lo spazio s’è ristretto all’improvviso quasi che la musica immensa lo avesse invaso completamente, risucchiando anche l’aria. La sfida era proprio questa: Cave funzionerà nei palazzetti, non luoghi per definizione? Lui che di atmosfera e emozione si nutre? La risposta è sì: Cave (e i Bad Seeds ai quali deve moltissimo) vince la sfida facendo ciò che sa fare meglio: travestire un’opera d’arte da concerto.
Quella di Milano lunedì scorso è stata la penultima delle tre date italiane del tour che, dopo Skeleton Tree (dopo la morte del figlio Arthur a soli 15 anni), avrebbe dovuto sguazzare nel dolore. La paura era quella di uscirne ancora più neri di come ci si era entrati in quel benedetto palazzetto. Non è andata così: la liturgia di Cave è pathos, è una carezza lunga due ore e mezzo per tutti i presenti.
Sono da poco passate le 21 quando i Bad Sedds introducono Anthrocene, da Skeleton Tree, ad aprire le danze. Danze, perché “l’oscuro signore” dagli occhi umidi come sembra sempre stia per commuoversi per qualcosa (che sia per grazia o per dolore non è mai dato saperlo) entra in scena e sussurra. Poi alza la voce, sempre di più. Seguono Jesus Alone e Magneto, sempre dall’ultimo lavoro. Cave si lascia i Bad Seeds alle spalle (con un elettrico, in ogni senso, Warren Ellis ad alternare furiose punizioni o lunghi baci ad un violino) e si getta, letteralmente, sul pubblico.
C’è una lunga passerella tra il palco e il parterre che consente all’artista di protendersi sul pubblico: Cave allunga le mani, cerca altre mani, tocca e si lascia toccare. Grida: “Can you feel my heart beat? Boom-Boom-Boom Motherfucking”. E il cuore di tutti sulle note di High Bosom Blues smette di essere una pompa per il sangue in circolo e diventa, meraviglia delle meraviglie, un organo “pensante” a sé. Arrivano From her to eternity e Tupelo, giusto per ricordare a tutti chi comanda, ed è una comunione post punk incredibile.
Cave non è pago e i Bad Seeds ancora meno di lui. Così perfetti in ogni nota da portare lo spettatore a sperare in una sbavatura, tanto per essere certi che siano veri.
Il pubblico è in “religioso” silenzio: mai visto un concerto dove tutti non cantano almeno una canzone a squarcia gola. Ebbene durante la “messa” di Cave non è nemmeno stato necessario. Nemmeno quando, al piano, con alle spalle un drappo arancio che rende tutto più caldo, Cave non intona In to my arms: c’è soltanto un lungo sussurro sul finale, quasi che la sua gente voglia restituirgliela quella carezza. Quell’abbraccio “O lord”.
Il finale è folle. Cave scende dal palco: canta in mezzo alla gente. Stringe la sciarpa di una ragazza, la usa per asciugarsi il sudore, chiede a una delle cento mani alzate di reggere un attimo il microfono mentre lui scandisce il tempo invitando tutti a seguirlo semplicemente battendo le mani. Stagger Lee, il secondo encore, lo vede tornare sul palco portandosi dietro un centinaio di spettatori. Cave li mette tra se stesso e i Bad Seeds completando la liturgia che copre ogni distacco. Benedice i ragazzi sul palco, canta per loro, abbraccia un giovane arrivato lì a petto nudo che lo guarda incredulo e cerca, al cospetto dell’icona di coprirsi il petto con i lunghi capelli in un pudico gesto degno di Lady Godiva.
Push the sky away chiude l’opera d’arte travestita da concerto. Ma no, Nick, spingere via quel cielo lì da sopra la testa di chi ti ha “incontrato” è impresa che nemmeno tu riuscirai a portare a compimento.