Le nostre radici affondano nella storia dei luoghi che ci hanno dato i natali. E la storia va conosciuta, scoperta, riscoperta e studiata.
Un lavoro che è anche una passione, che diventa “contagiosa” e aiuta a creare una memoria condivisa, fondamentale per la vita di una comunità. Un impegno che porta avanti il giornalista , insieme all’associazione “La Varese Nascosta”.
Fino al 1927 Palazzo Estense ospitò, con quelli comunali, gli uffici della Sottoprefettura, dipendente dalla Prefettura lariana. La guerra fredda, calda ormai solo in ambito calcistico, tra varesini e comaschi è una storia infinita. È di cinque anni fa la petizione, sottoscritta da migliaia di varesini, contro il progetto di legge, poi abortito, che prevedeva la riunificazione di Varese e Como in una sola provincia. “Mai con Como” era lo slogan, urlato soprattutto dagli ultrà
del Varese calcio, che mirava a scongiurare il ritorno a una soggezione a cui aveva posto fine, nel 1927, l’elevazione di Varese al rango di capoluogo di provincia. Un’analoga “rimostranza” fu presentata il 20 luglio del 1802 al prefetto del Lario, al ministro dell’Interno e al vicepresidente della napoleonica Repubblica Italiana (da poco succeduta alla Repubblica Cisalpina) avverso la decisione di assoggettare i varesini al Dipartimento di Como, “con cui ¬- si legge testualmente – non hanno mai avuto, non hanno e non possono avere alcun rapporto né morale, né economico, né commerciale, né politico”. D’altronde, antichi odi tenevano separati (scrive l’Adamollo) varesini e comaschi già nel Medioevo e l’odio degenerò in scontro aperto nel 1121. Nel mese di maggio di quell’anno sarebbe scaduta la tregua sottoscritta dalle repubbliche di Milano e di Como da tempo in guerra tra loro e, prima del termine, i comaschi decisero di prendere di sorpresa Varese, che aveva contribuito, con il Seprio, ad accrescere l’armata dei milanesi. I lariani, già a quei tempi chiamati anche “laghisti”, assalirono Varese di notte e costrinsero gli abitanti del borgo a battersi seminudi. Sconfitti e fatti prigionieri, numerosi nostri antenati furono trascinati, in camicia e con le mani legate, in riva al Lario. Sei anni dopo, Milano vendicò l’attacco a Varese “facendo a pezzi” i comaschi e radendo al suolo la città di Plinio.
Giuseppe Bernasconi morì nel 1627, dieci anni dopo la posa della prima pietra del maestoso campanile che lo ha fatto entrare nella storia, con il nome di Bernascone, ma che egli non poté veder completato. Magister (capomastro) prima che architetto, il Mancino curò, nei quattro decenni a cavallo del 1600, la direzione dei lavori della nuova Basilica, progettata in stile tardomanierista da Pellegrino Tibaldi, il maggior architetto della Controriforma. Giuseppe Bernasconi non ebbe però solo un ruolo esecutivo perché a lui è attribuito l’elegante tiburio a base ottagonale sormontato dall’altrettanto elegante lanternino.
Quando, nel 1598, Giuseppe Bernasconi progettò, su incarico delle Romite Ambrosiane, il campanile del santuario di Santa Maria del Monte, non sapeva ancora che sarebbe diventato l’architetto della Fabbrica del Santissimo Rosario. Padre Giovan Battista Aguggiari, di cui il Mancino sarebbe diventato il più stretto collaboratore tecnico, non aveva ancora lanciato la grande impresa del Sacro Monte. La prima pietra della torre campanaria fu posta il 7 giugno del 1599 e l’opera fu compiuta in meno di due anni. Giuseppe Bernasconi progettò il campanile in pietra viva e laterizio, una massiccia struttura completata da una cupoletta, che oggi non vediamo perché si rivelò un potente parafulmine, che ebbe più volte un effetto devastante sulla sommità del campanile. Qualche anno prima della torre, nel 1593, fu costruito il bel pozzo in pietra e marmi bianchi che si staglia sullo sfondo della pianura lombarda. Anche le due colonne ioniche unite da un architrave sono attribuite al Mancino.