Nel 79 d.C. una terribile eruzione del Vesuvio distrusse completamente Pompei, insieme alle cittadine di Ercolano, Oplonti e Stabia.
Il Vesuvio a quel tempo era considerato un vulcano in stato quiescente. Nell’immaginario collettivo della popolazione circostante era visto come una fertile montagna sulle cui falde crescevano rigogliosi orti e vigneti che producevano un ottimo vino.
Il monte Vesuvio era alto circa 2000 metri ed era unito al monte Somma in un’unica cima, che si presentava arida, piatta e ampia, circondata da dirupi che ne rendevano difficoltoso l’accesso. Nel 73 a.C. Spartaco e i suoi compagni, inseguiti dai romani, si rifugiarono sulla cima, resistendo alle legioni, e infine battendole, scendendo dalla vetta attraverso un dirupo talmente difficile che non era stato sorvegliato dalle truppe.
L’ultima grande eruzione del Vesuvio era avvenuta lontanissima nel tempo, intorno al 3800 a.C., fu una grande eruzione di tipo Pliniano che coprì di cenere e lapilli anche la lontana Avellino.
Anteprime dell’eruzione furono alcuni fenomeni tellurici. Nel 62 d.C. fu avvertito un terremoto nell’area di Pompei che distrusse parecchie case. Dopo, negli anni precedenti il 79, si susseguirono vari tremori della terra.
La mattina del 24 agosto, come scrive Plinio il giovane, o il 24 ottobre, secondo studi recenti fatti in base al ritrovamento nelle rovine di Pompei di una moneta certamente coniata posteriormente al 24 agosto, dalla cima del vulcano si alzò un enorme fungo eruttivo formato da cenere e lapilli.
Gli abitanti di Pompei che nella notte avevano avvertito violentissimi terremoti, videro elevarsi questa gigantesca nuvola che fuoriusciva violentemente dalla cima del Vesuvio e oscurava completamente il cielo come se fosse notte.
Incominciarono a piovere lapilli, molti si misero in salvo fuggendo nelle campagne. A un certo punto la pioggia di lapilli terminò e la popolazione, credendo che l’eruzione fosse finita, tornò in città per aiutare le persone rimaste e recuperare i loro beni. A quel punto una fittissima pioggia di cenere colpì Pompei e le città di Oplonti e Stabia facendo un gran numero di vittime. Queste tre città si ritrovarono in poche ore completamente sommerse dalla cenere.
Ercolano invece non fu interessata dalla lava né investita dalla pioggia di lapilli. L’intera popolazione perì a causa dell’altissimo fungo eruttivo, formato da gas bollenti e letali, che collassò su sé stesso e investì in pieno la cittadina. Le persone rimaste nelle case perirono atrocemente. Ritrovamenti recenti hanno appurato che molti abitanti di Ercolano si erano rifugiati in riva al mare, nelle grotte adibite a rimesse delle barche. Anch’essi furono raggiunti dai gas bollenti dell’eruzione e trovarono la morte.
Il fenomeno durò in tutto due giornate, il terzo giorno ritornò la calma su una distesa di rovine. Un deserto fumante di cenere e lapilli aveva coperto completamente tutte le cittadine che si trovavano a sud-est del vulcano.
Testimoni oculari della tragedia furono Plinio il vecchio, studioso naturalista, e suo nipote Plinio il giovane che in quei giorni si trovavano nella loro villa situata a Miseno (odierna Bacoli). Plinio il giovane raccontò l’eruzione in alcune lettere indirizzate al suo amico Tacito. In base alle precise descrizioni del fenomeno fatto da Plinio, questo tipo di attività vulcanica viene oggi denominata “eruzione pliniana”.
La mattina del 24 agosto (o forse 24 ottobre) dell’anno 79 d.C. la moglie di Plinio il vecchio svegliò il marito per fargli vedere dal terrazzo della villa un enorme fungo di fumo, fuoco e altri materiali eruttivi che si innalzava dalla cima di un monte, che solo dopo seppero essere il Vesuvio. Plinio il giovane racconta che il fungo raggiungeva l’altezza di circa 24 chilometri.
Così egli racconta in una lettera al suo amico Tacito quello che vide dal terrazzo di casa:
“Si sollevava una nube, guardando da lontano non era facile capire quale era il punto di origine della nube (poi si venne a sapere che si trattava del Vesuvio): il fumo aveva la forma di un altissimo pino. In basso era slanciato che sembrava un tronco, poi si allargava in quella che poteva esserne la chioma.”
Lo zio, Plinio il vecchio, avendo ricevuto un messaggio da Retina, moglie del suo amico Cesio Basso, che lo implorava di andare ad aiutarli con una nave, essendo bloccati a Ercolano, salpò con una trireme per salvare l’amico e altre persone. Giunto nei pressi della riva della cittadina, il mare si ritirò improvvisamente rendendo impossibile avvicinarsi alla spiaggia. Allora si diresse verso Stabia dove approdò, facendosi ospitare dall’amico Pomponiano.
Anche Stabia nella notte fu colpita da cenere e lapilli. Plinio, che si era recato sulla spiaggia temendo che la casa dell’amico potesse essere completamente sommersa dalla cenere, morì a causa della respirazione di aria calda frammista a cenere. Fu ritrovato il mattino seguente che giaceva sul bagnasciuga.
Plinio il giovane così descrive la morte dello zio nella lettera a Tacito:
“A me sembra che l’aria calda e la cenere gli abbiano ostruito la gola impedendogli il respiro, La sua gola era già debole e angusta, soggetta a infiammazioni. Il mattino seguente, quando ritornò a vedersi il sole (era il terzo giorno dall’inizio dell’eruzione), egli fu trovato intatto, illeso, con gli stessi vestiti che indossava alla partenza; sembrava che dormisse, invece era morto”.
Il vulcano dopo l’eruzione perse parte del cono centrale. La parte laterale rimasta intatta oggi viene chiamata monte Somma. L’altezza si ridusse dai 2000 metri prima dell’eruzione ai 1281 metri attuali. Le pendici del monte che prima erano rigogliose di orti e viti, dopo si presentavano completamente brulle.
A questa eruzione ne seguirono altre cinque. Dell’ultima, avvenuta nel 1500, non si hanno testimonianze certe. Nel 472 ci fu un tale getto di ceneri che queste raggiunsero la lontanissima Costantinopoli. Nel 1036 ci fu una eruzione con getto di lava, che fu la prima di questo tipo del Vesuvio.
Di Pompei non si ebbero più notizie, né si conosceva l’esatta ubicazione. Carlo III di Borbone promosse una serie di scavi per rintracciare l’antica cittadina.
Nel 1748 Roque Joaquin de Alcubierre, un ingegnere e archeologo spagnolo, in base ai suoi studi e a quanto riportato in antiche testimonianze, fece una serie di scavi che portarono alla scoperta delle rovine della città di Pompei sotto una coltre di cenere alta 10 metri.
Alla fine del settecento l’ingegnere Francesco La Vega, su interessamento della regina Maria Carolina, portò alla luce alcuni dei monumenti di Pompei: i teatri, il tempio di Iside, il foro della città.
Maria Carolina fece stampare diverse pubblicazioni relative al ritrovamento dei resti pompeiani, suscitando l’interesse degli studiosi di tutto il mondo. Pompei divenne una tappa fondamentale del Grand Tour.
Gli scavi continuarono dopo il 1860 a cura di Giuseppe Fanelli che inventò la tecnica dei calchi. Nel XX secolo Amedeo Maiuri, sovraintendente dei beni culturali della Campania, completò quasi del tutto gli scavi, organizzando nel perimetro degli stessi il museo a cielo aperto che oggi studiosi e turisti di tutto il mondo visitano.