Cala ancora la popolazione in Italia. Alla luce dei primi risultati provvisori, infatti, la popolazione residente nel nostro Paese al 1° gennaio 2023 è di 58 milioni e 851mila unità, 179mila in meno sull’anno precedente, per una riduzione pari al 3‰. Prosegue, dunque, la tendenza alla diminuzione della popolazione, ma con un’intensità minore rispetto sia al 2021 (-3,5‰), sia soprattutto al 2020 (-6,7‰), anni durante i quali si era accelerato un processo iniziato già nel 2014. E’ quanto emerge dal report dell’Istat sugli ‘Indicatori demografici 2022’.
Appurato che nel 2022 la popolazione residente presenta una decrescita simile a quella del 2019 (-2,9‰), sul piano territoriale si evidenzia un calo demografico importante che interessa il Mezzogiorno (-6,3%). Il Centro (-2,6%) e soprattutto il Nord (-0,9%), che pur presentano un saldo demografico negativo, hanno valori migliori della media nazionale. Sul piano regionale, la popolazione risulta in aumento solo in Trentino-Alto Adige (+1,6‰), in Lombardia (+0,8‰) e in Emilia-Romagna (+0,4‰). Le regioni, invece, in cui si è persa più popolazione sono la Basilicata, il Molise, la Sardegna e la Calabria, tutte con tassi di decrescita più bassi del -7‰.
Su base nazionale, rileva l’Istat, il calo della popolazione è frutto di una dinamica demografica sfavorevole che vede un eccesso dei decessi sulle nascite, non compensato dai movimenti migratori con l’estero. I decessi sono stati 713mila, le nascite 393mila, toccando un nuovo minimo storico, con un saldo naturale quindi di -320mila unità.
Le iscrizioni dall’estero sono state pari a 361mila mentre 132mila sono state le cancellazioni per l’estero. Ne deriva un saldo migratorio con l’estero positivo per 229mila unità, in grado di compensare solo in parte l’effetto negativo del pesante bilancio della dinamica naturale.
Sul versante della mobilità interna, nel 2022 si rileva un aumento del volume complessivo dei movimenti del 4%, con 1 milione 484mila trasferimenti di residenza registrati tra Comuni contro 1 milione 423mila dell’anno precedente. Infine, le ordinarie operazioni di allineamento e revisione delle anagrafi (saldo per altri motivi) comportano un saldo negativo per ulteriori 88mila unità.
AUMENTANO I CITTADINI STRANIERI – La popolazione di cittadinanza straniera al 1° gennaio 2023 è di 5 milioni e 50mila unità, in aumento di 20mila individui (+3,9‰) sull’anno precedente. L’incidenza degli stranieri residenti sulla popolazione totale è dell’8,6%, in leggero aumento rispetto al 2022 (8,5%), quanto emerge ancora dal report.
Quasi il 60% degli stranieri, pari a 2 milioni 989mila unità, rileva l’Istat, risiede al Nord, per un’incidenza dell’11%, la più alta del Paese. Risulta attrattivo per gli stranieri anche il Centro, dove risiede un milione 238mila individui (25% del totale) con un’incidenza del 10,6%, al di sopra della media nazionale. Il Mezzogiorno ha invece meno presenza straniera, 824mila unità (16%), per un’incidenza del 4,2%.
SPERANZA DI VITA SU PER GLI UOMINI, STABILE PER DONNE – La speranza di vita alla nascita nel 2022 è stimata in 80,5 anni per gli uomini e in 84,8 anni per le donne, solo per i primi si evidenzia, rispetto al 2021, un recupero quantificabile in circa 2 mesi e mezzo di vita in più. Per le donne, invece, il valore della speranza di vita alla nascita rimane invariato rispetto all’anno precedente. I livelli di sopravvivenza del 2022 risultano ancora sotto quelli del periodo pre-pandemico, registrando valori di 6 mesi inferiori nei confronti del 2019, sia tra gli uomini che tra le donne.
Sebbene il rallentamento della speranza di vita delle donne rispetto agli uomini costituisca un processo ravvisabile già in anni precedenti la pandemia, quest’ultima può aver acuito il trend. L’impatto della crisi sul sistema sanitario, e la conseguente difficoltà nella programmazione di visite e controlli medici, potrebbero esser state particolarmente forti per le donne, più inclini degli uomini a fare prevenzione. Ad esempio, dai dati dell’indagine “Aspetti della vita quotidiana” risulta che tra il 2019 e il 2021 la percentuale di donne che ha dichiarato di aver rinunciato a prestazioni sanitarie sia aumentata di 5 punti percentuali (dal 7,5% al 12,7%), per gli uomini tale aumento è stato invece di 4 punti percentuali (dal 5% al 9,2%).
Nel Nord la speranza di vita alla nascita è di 80,9 anni per gli uomini e di 85,2 per le donne; i primi recuperano circa un mese rispetto all’anno precedente al contrario delle donne che invece lo perdono. Il Trentino-Alto Adige è ancora la regione con la speranza di vita più alta sia tra gli uomini sia tra le donne, il Friuli-Venezia Giulia è invece la regione che ha registrato il maggior guadagno rispetto all’anno precedente, circa sei mesi per entrambi i sessi.
Il Centro è l’unica area per cui si registrano incrementi di sopravvivenza in tutte le regioni, anche se lievi, rispetto al 2021: per gli uomini l’incremento è dello 0,2, mentre per le donne dello 0,1. La speranza di vita più alta tra gli uomini si annota in Toscana (81,3), per le donne nelle Marche (85,4).
Anche il Mezzogiorno nel complesso fa registrare gli stessi incrementi del Centro, ma al suo interno ha una situazione più eterogenea. Si passa da regioni come Molise (solo per gli uomini) e Puglia, dove i guadagni rispetto all’anno precedente sono intorno ai 6 mesi di vita, alla Sardegna, dove la forte mortalità ha fatto sì che si sia perso circa mezzo anno di vita per entrambi i sessi. Quest’ultima è la regione dove la quota di rinunce a prestazioni sanitarie è più elevata (nel 2021 era pari al 18,3% contro il dato nazionale dell’11%). La Campania, con valori della speranza di vita di 78,8 anni per gli uomini e di 83,1 per le donne, resta la regione dove si vive meno a lungo.
La spiegazione di fondo, in conclusione, è che le variazioni congiunturali della speranza di vita che si stanno rilevando nell’ultimo triennio siano ancora fortemente correlate a quella che è stata l’evoluzione della pandemia dal 2020 in poi. I parziali recuperi di quanto perso nel periodo più critico (che è stato diverso da regione a regione) sono dipesi sia dall’efficienza del sistema sanitario, pesantemente sottoposto a pressione, sia dalla preoccupazione che psicologicamente può aver indotto le persone (soprattutto se donne e se fragili) ad avvalersi meno che in passato dei servizi medico-sanitari.
NEL 2022 713MILA DECESSI – Nel 2022 i decessi in Italia sono 713mila, con un tasso di mortalità pari al 12,1‰. Rispetto all’anno precedente il numero dei morti è superiore di 12mila unità, ma inferiore di 27mila rispetto al 2020, anno di massima mortalità per via della pandemia. Il numero più alto dei decessi si è avuto in concomitanza dei mesi più rigidi, gennaio e dicembre, e nei mesi più caldi, luglio e agosto. In questi soli quattro mesi si sono osservati 265mila decessi, quasi il 40% del totale, dovuti soprattutto alle condizioni climatiche avverse che hanno penalizzato nella maggior parte dei casi la popolazione più anziana e fragile, composta principalmente da donne.
Oltre 606mila deceduti, l’85% del totale, hanno un’età maggiore o pari ai 70 anni, percentuale che nelle donne aumenta fino all’89,2% mentre per gli uomini si ferma all’80,3%. Analizzando i quattro mesi con le condizioni climatiche più avverse, queste percentuali aumentano all’80,7% per gli uomini e quasi al 90% per le donne, proprio a sottolineare come questa mortalità più elevata abbia coinvolto soprattutto la popolazione più anziana.
Situazioni analoghe si erano già verificate in passato, quando l’eccesso di mortalità rispetto all’anno precedente era dovuto all’elevato numero di decessi dei mesi estivi e invernali. Negli anni 2003, 2015 e 2017 si erano registrati degli incrementi dei decessi rispetto all’anno precedente rispettivamente del 5,2%, 8,2% e 5,5% e anche in questi anni la quota per i mesi di gennaio, luglio, agosto e dicembre era risultata significativa, portandosi sopra il 35%.
Se si esclude il 2020, contraddistinto dall’impatto pandemico, è opportuno rilevare che delle quattro annualità sin qui riconosciute come caratterizzate da livelli di mortalità superiori all’atteso ben tre (2015, 2017, 2022) siano concentrate nell’arco di soli otto anni, mentre una soltanto (2003) risalga a venti anni fa. Un segnale, apparentemente inequivocabile, di quanto i cambiamenti climatici stiano assumendo rilevanza crescente anche sul piano della sopravvivenza, nel contesto di un Paese a forte invecchiamento.
Il 47% dei decessi si registra nel Nord, con un valore pari a 333mila. Al Centro i decessi sono 144mila (20%) e nel Mezzogiorno 237mila (33%). È però il Centro la ripartizione con il tasso di mortalità più elevato (12,3‰), segue il Nord (12,2‰). Il Mezzogiorno, invece, con un tasso dell’11,9‰, registra una mortalità al di sotto della media nazionale, motivata dal fatto di presentare una struttura della popolazione relativamente meno invecchiata e pertanto meno soggetta ai fattori di rischio.
A livello regionale, rileva l’Istat, la Liguria (15,9‰) e il Molise (14,7‰) sono le regioni con il tasso di mortalità più alto, mentre il Trentino-Alto Adige (9,9‰) e la Campania (10,9‰) quelle con il tasso più basso. Le prime sono, infatti, quelle con una struttura della popolazione più anziana, le ultime invece quelle con la struttura più giovane del Paese.
NEL 2022 TOCCATO IL MINIMO DELLE NASCITE – Nel 2022 i nati sono scesi, per la prima volta dall’unità d’Italia, sotto la soglia delle 400mila unità, attestandosi a 393mila. Dal 2008, ultimo anno in cui si registrò un aumento delle nascite, il calo è di circa 184mila nati, di cui circa 27mila concentrate dal 2019 in avanti. Questa diminuzione, registra il report, è dovuta solo in parte alla spontanea o indotta rinuncia ad avere figli da parte delle coppie. In realtà, tra le cause pesano molto tanto il calo dimensionale quanto il progressivo invecchiamento della popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (dai 15 ai 49 anni).
Se nel corso del 2022 si fosse procreato con la stessa intensità e lo stesso calendario del 2019, il calo dei nati sarebbe stato pari a circa 22mila unità, totalmente attribuibile, pertanto, alla riduzione e all’invecchiamento della popolazione femminile in età feconda. La restante diminuzione, di circa 5mila nascite, risulterebbe invece causata dalla reale diminuzione dei livelli riproduttivi.
Dopo il lieve aumento del numero medio di figli per donna verificatosi tra il 2020 e il 2021, riprende il calo dell’indicatore congiunturale di fecondità, il cui valore si attesta nel 2022 a 1,24, tornando così al livello registrato nel 2020. Prosegue quindi la tendenza alla riduzione dei progetti riproduttivi, già in atto da diversi anni nel nostro Paese, con un’età media al parto stabile rispetto al 2021, pari a 32,4 anni.
La diminuzione del numero medio di figli per donna riguarda sia il Nord sia il Centro Italia, dove si registrano valori rispettivamente pari a 1,26 e 1,16 (nel 2021 erano pari a 1,28 e 1,19). Nel Mezzogiorno, invece, si registra un lieve aumento, con il numero medio di figli per donna che si attesta a 1,26 (era 1,25 nell’anno precedente). L’età media al parto è leggermente superiore nel Nord e nel Centro (32,6 e 32,9) rispetto al Mezzogiorno (32,1).
Si assiste a una riduzione delle differenze tra Nord e Mezzogiorno, mentre il Centro continua ad avere una fecondità sensibilmente più bassa rispetto alle altre due ripartizioni. Il Mezzogiorno è la sola ripartizione che prosegue la risalita iniziata lo scorso anno. Peraltro, il calo registrato nel Nord e l’aumento nel Mezzogiorno fanno sì che nel 2022 i livelli di fecondità di queste due ripartizioni siano identici.
La nuzialità registra un lieve aumento, con un tasso che passa dal 3,1‰ dello scorso anno al 3,2‰, ritornando così ai livelli pre-pandemia. Il tasso più elevato si riscontra nel Mezzogiorno (3,6‰, in diminuzione rispetto al 3,8‰ del 2021) mentre nel Nord e nel Centro i livelli sono inferiori (3‰ per entrambe le ripartizioni, in leggero aumento rispetto a 2,7‰ e 2,6‰ del 2021). Dopo il crollo del 2020, il Mezzogiorno presenta l’aumento maggiore di nuzialità negli ultimi due anni; tendenza che si associa a quella altrettanto positiva della fecondità che ha caratterizzato questa ripartizione.
TRENTINO REGIONE PIU’ FECONDA – La regione con la fecondità più alta è il Trentino-Alto Adige con un valore pari a 1,51 figli per donna. Le regioni a seguire, Sicilia e Campania, registrano valori molto più bassi, rispettivamente 1,35 e 1,33. In questo insieme di regioni le madri sono mediamente più giovani, con valori dell’età media al parto compresi tra il 31,4 della Sicilia e il 32,1 del Trentino-Alto Adige.
Regioni con fecondità decisamente contenuta sono il Molise e la Basilicata, con un valore di 1,09 figli per donna, ma su tutte spicca la Sardegna che, con un valore pari a 0,95, è per il terzo anno consecutivo l’unica regione con una fecondità al di sotto dell’unità.Nel Mezzogiorno, che presenta un valore del tasso di fecondità totale di 1,26, solo Sicilia, Campania e Calabria hanno una fecondità al di sopra della media nazionale (rispettivamente 1,35, 1,33 e 1,28 figli per donna), è invece al di sotto nelle altre cinque regioni.
Viceversa, nel Nord, che registra la stessa fecondità del Mezzogiorno, solo Piemonte (1,22) e Liguria (1,20) presentano una fecondità al di sotto della media nazionale, nelle altre sei è invece maggiore di 1,24.Nel Mezzogiorno si trovano le regioni con la più elevata età media al parto, Basilicata (33,2), Sardegna e Molise (32,9). Si tratta delle regioni con il più basso tasso di fecondità, la cui diminuzione è legata proprio alla continua posticipazione dell’esperienza della maternità che di fatto si tramuta sempre più in una definitiva rinuncia.
Scendendo a livello provinciale, il primato della fecondità più elevata spetta alla provincia di Bolzano/Bozen (1,65), seguita da Gorizia (1,45), Crotone (1,44), Ragusa (1,43), Palermo (1,42) e Catania (1,41). Il primato della fecondità più bassa spetta alle province sarde, con ben tre province su cinque, Cagliari, Sud Sardegna, Oristano, al di sotto di un figlio per donna (0,93 la prima, 0,90 le ultime due).