La doppia narrazione dell’omicidio in Italia: “femminicidio” per gli italiani, generico “omicidio” per gli stranieri?

Quando il colpevole è italiano, il termine "femminicidio" appare quasi immediato. Ma se l'aggressore è straniero, tutto si dissolve in un semplice "omicidio". È davvero solo una scelta linguistica?

Caro Direttore,

c’è qualcosa di disturbante nella maniera in cui certi fatti di cronaca vengono raccontati, non per quello che dicono ma per quello che omettono. Prendiamo il caso degli omicidi di donne: quando l’aggressore è italiano, soprattutto se si tratta di partner o ex partner, il reato viene giustamente etichettato come femminicidio — un atto di violenza di genere che mette in luce la dinamica sistematica e allarmante degli omicidi contro le donne, perpetrati per il solo fatto di essere donne.

Ma quando l’assassino è straniero, improvvisamente la specificità della violenza di genere sembra evaporare, sostituita da una generica e impersonale etichetta di “omicidio”. Ci si domanda allora: perché questa distinzione? Se, come giustamente si afferma, la violenza contro le donne è un problema culturale, sociale e strutturale, non dovrebbe essere considerata tale indipendentemente dalla nazionalità dell’aggressore? E invece no, la scelta delle parole cambia drasticamente. Il termine “femminicidio” sembra riservato agli italiani, come a voler sottolineare una colpa interna, un “problema nostro”; ma se l’assassino è straniero, sembra quasi che si desideri mantenere la questione su un piano diverso, neutralizzando la responsabilità di genere.

Questa distinzione non solo è ingiusta, ma è anche ipocrita. È come se non si volesse applicare il termine “femminicidio” agli uomini stranieri, magari per paura di cadere in accuse di razzismo o di eccessiva generalizzazione. Ma così facendo, si depotenzia l’universalità della lotta alla violenza di genere e si invia un messaggio ambiguo: la vita delle donne, la loro protezione, sembrano improvvisamente meno rilevanti quando la violenza viene da “altrove”.

Anche i giornali, i telegiornali e i talk show giocano con le parole, e le parole sono potenti. Si prenda il caso di Sara Centelleghe, la ragazza uccisa da un indiano a Costa Volpino, vicino Bergamo: non c’è un solo quotidiano che abbia titolato parlando di “femminicidio”. Non uno. Continuare a distinguere gli omicidi di donne in base alla nazionalità dell’assassino contribuisce solo a mantenere un’ipocrisia pericolosa, dove le vite delle vittime sembrano valere di più o di meno a seconda di chi le ha spente. Se davvero ci impegniamo nella lotta contro la violenza di genere, allora dobbiamo smettere di nasconderci dietro le parole: femminicidio è femminicidio, a prescindere da chi lo compie.